sabato 9 dicembre 2006

Sonetto 272 dei Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca

SONETTO 272 DEI RERUM VULGARIUM FRAGMENTA

DI FRANCESCO PETRARCA

In questo sonetto si può vedere tutta la grande modernità del Petrarca. Il ritmo lento e malinconico dei suoi passi appaiono al lettore di ogni tempo come una musica dolce che scioglie la passione in una infinita malinconia.
E' la malinconia il vero paesaggio dell'opera. Un paesaggio interiorizzato quello che emerge con chiarezza nei versi di questo famoso sonetto.
Il Petrarca di questo sonetto è un Petrarca nuovo, un poeta, un uomo che non finge più di morire per amore, ma confessa quanto sia duro vivere se si è morti dentro.
L'Io è sempre lì, in quasi ogni verso a direzionare l'intera poesia («io ò di me stesso pietate, i' sarei già, tornami avanti, veggio al mio navigar, veggio fortuna, il mio nocchier, soglio»), sia quando è nominato direttamente, sia quando è sottaciuto o nascosto, come si può vedere in questi passaggi del sonetto.
Petrarca descrive un'assenza e lo fa grazie all'uso dell'Io, della centralità del soggetto, al contrario di quello che faceva la lirica medievale in cui al centro della poesia c'era sempre la donna amata. In questo sonetto Petrarca parla della sua vita che fugge, della vita troppo breve che non «s'arresta un'ora» (V.1) e della morte che «vien dietro a gran giornate» (V.2). Quando il poeta dice che «le cose presenti e le passate mi danno guerra, e le future ancora» (VV.3-4) dice che tutta la vita è piena di dolore, tutta: quella di oggi, di ieri e di domani. Il Petrarca, allora, nella prima quartina dice che la paura di morire rende la vita un male.
«e 'l rimembrare e l'aspettar m'accora, or quinci or quindi» (VV.5-6) Ieri come oggi, oggi come sarà domani: il poeta da un lato sembra mettere i ricordi («quinci»), dall'altro le aspettative («quindi»). Egli sembra avvolgere tutto con un mantello di dolore e di male. E' fortemente pessimista in questo inizio di sonetto. Non descrive questo male, non dice che cosa è.
«sì che 'n veritate, se non ch'i' ò di me stesso pietate, i' sarei già di questi pensier' fora» (VV. 6-8) E' con questi versi che Petrarca per la prima volta nella letteratura italiana parla chiaramente di suicidio. Per un istante il protagonista, l'Io, si è illuso di potersi dare la libertà dandosi la morte. I «pensier» (V.8) non sono le preoccupazioni, ma i dolori, i pensieri cupi, quelli che riguardano la morte. Nessun poeta medievale parla così chiaramente di suicidio, questa è un grande segno di modernità. C'era il suicidio per amore, ma era un suicidio per finta, una metafora, una consumazione dell'anima. Anche in questo sonetto il poeta parla dell'amore come di una cosa irrazionale, che può spingere l'uomo a gesti folli e privi di logica. L'amore è follia, e in una società molto religiosa come era quella medievale togliersi la vita per amore era l'unica possibilità per ridare dignità a questo gesto (insieme agli esempi della letteratura classica in cui abbondano i suicidi per amore) altrimenti duramente condannato. Ma la grande novità di questo sonetto è che questo non è propriamente un sonetto d'amore. Esso non parla d'amore, o almeno fino a questo verso non ne ha ancora parlato. Perché allora Petrarca parla di suicidio se non è per amore? E perché il poeta dice di aver avuto pietà di se stesso tanto da non togliersi la vita? Petrarca da buon uomo di fede ha avuto paura della dannazione eterna. La pietà verso se stesso lo ha salvato dalle pene riservate ai suicidi. Ma perché allora ha parlato di suicidio? Perché la sua vita appare in questa poesia avvolta da una nebbia che gli toglie il respiro. Tutto è avvolto di nero: il passato come il presente ed il futuro. E' la stanchezza di vivere.
Tutto quello che le parole del poeta non dicono lo dice il ritmo del sonetto: un ritmo ripetitivo, costante, persino monotono che deve dare l'idea di qualcosa che si ripete stancamente senza entusiasmi, Quello di Petrarca evidenziato in questa poesia è un cammino lungo e lento, un camminare sul posto. Ci sono sì indicazioni temporali. Si parla del tempo passato, di quello presente e di quello futuro, ma il presente che emerge da questi versi è un presente vuoto e stanco, proprio come il protagonista.
Importante è anche mettere in luce l'uso della «e». Petrarca dice «e le cose passate e le future» e usa altre volte la congiunzione «e» proprio per dare ulteriore risalto all'idea di quel ritmo lento e cadenzato di cui si è detto prima. Altro elemento da ricordare per mettere in risalto l'importanza del ritmo è la presenza di rime e anafore significative. Le rime del sonetto sono ora -ate - ai - arte - enti e sono rime che non catturano l'attenzione, perché il Petrarca vuole spostare l'attenzione del lettore sugli inizi dei versi, ed è qui che entra in scena l'anafora, scandita dal lungo susseguirsi di «e».
Accenti, pause, ripetizioni, rime e anafore si sommano fino ad annullarsi. Tutto sembra voler accompagnare un'idea fissa, quella di una vera e propria malattia che soffoca il poeta. Gli antichi, Dante ad esempio, la chiama accidia, noi depressione.
Accidioso era chi non riusciva a guardare la vita con la fiducia del cristiano credente. Petrarca sa che questa è una grande colpa, come si può vedere anche nel suo Secretum, ma non può fare niente per venirne fuori. L'accidia, come la moderna depressione è il disgusto per la vita. Presente, passato e futuro non hanno più alcuna importanza.
Dal V.11 al V.13 si ha una importante immagine simbolica. «Veggio al mio navigar turbati i venti; veggio fortuna in porto, e stanco omai il mio nocchier, e rotte àrbore e sarte». Per Petrarca la nave è la metafora della vita umana. Una allegoria classica quella della vita umana vista come una barca nel mare ondoso, un topos usatissimo usato da Petrarca un po' per agevolare il lettore con immagini consuete facile da decifrare e un po' anche perchè non ha probabilmente nessuna voglia, da accidioso-depresso, di inventarne di nuove. Chi è allora il nocchiero se non la sua ragione vacillante e cosa rappresenta l'albero rotto della nave se non la rovina e lo smarrimento sicuro della retta via. Eppure Petrarca non cade nel silenzio. Parla, continua a parlare e questo lo rende molto moderno e poco medievale.

Per concludere bisogna dire che questo è anche un sonetto d'amore. Laura non appare mai e non perché è ormai morta. Laura è un ricordo (V. 9-10) «tornami avanti, s'alcun dolce mai ebbe 'l cor tristo» e le dolcezze sono sicuramente quelle dell'amore. E' come se la parola d'amore si fosse fatta intima, come se Petrarca fosse diventato pudico e non volesse parlarne più. Quello di Petrarca di questo sonetto è l'amore di un vecchio, la nostalgia di un amore che ormai è morto ed ha perso il suo oggetto primario. Restano i «lumi spenti» (V.14). Petrarca ci dice che niente lo avrebbe potuto aiutare neanche Laura. I lumi spenti sono gli occhi di Laura? Forse. Forse il buio si fa luce e viceversa, ed è questa probabilmente una delle grandezze di Petrarca: la capacità di dire tutto ed il contrario di tutto con un semplice verso, è la contraddizione, la paura, la paura e la voglia di ogni uomo moderno ad esplodere nei suoi versi, a lasciare il segno a far sì che tutto questo possa essere associato ad ogni uomo moderno, che lo si ritrovi anche ora negli uomini del duemila.

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