sabato 9 dicembre 2006

Sonetto 272 dei Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca

SONETTO 272 DEI RERUM VULGARIUM FRAGMENTA

DI FRANCESCO PETRARCA

In questo sonetto si può vedere tutta la grande modernità del Petrarca. Il ritmo lento e malinconico dei suoi passi appaiono al lettore di ogni tempo come una musica dolce che scioglie la passione in una infinita malinconia.
E' la malinconia il vero paesaggio dell'opera. Un paesaggio interiorizzato quello che emerge con chiarezza nei versi di questo famoso sonetto.
Il Petrarca di questo sonetto è un Petrarca nuovo, un poeta, un uomo che non finge più di morire per amore, ma confessa quanto sia duro vivere se si è morti dentro.
L'Io è sempre lì, in quasi ogni verso a direzionare l'intera poesia («io ò di me stesso pietate, i' sarei già, tornami avanti, veggio al mio navigar, veggio fortuna, il mio nocchier, soglio»), sia quando è nominato direttamente, sia quando è sottaciuto o nascosto, come si può vedere in questi passaggi del sonetto.
Petrarca descrive un'assenza e lo fa grazie all'uso dell'Io, della centralità del soggetto, al contrario di quello che faceva la lirica medievale in cui al centro della poesia c'era sempre la donna amata. In questo sonetto Petrarca parla della sua vita che fugge, della vita troppo breve che non «s'arresta un'ora» (V.1) e della morte che «vien dietro a gran giornate» (V.2). Quando il poeta dice che «le cose presenti e le passate mi danno guerra, e le future ancora» (VV.3-4) dice che tutta la vita è piena di dolore, tutta: quella di oggi, di ieri e di domani. Il Petrarca, allora, nella prima quartina dice che la paura di morire rende la vita un male.
«e 'l rimembrare e l'aspettar m'accora, or quinci or quindi» (VV.5-6) Ieri come oggi, oggi come sarà domani: il poeta da un lato sembra mettere i ricordi («quinci»), dall'altro le aspettative («quindi»). Egli sembra avvolgere tutto con un mantello di dolore e di male. E' fortemente pessimista in questo inizio di sonetto. Non descrive questo male, non dice che cosa è.
«sì che 'n veritate, se non ch'i' ò di me stesso pietate, i' sarei già di questi pensier' fora» (VV. 6-8) E' con questi versi che Petrarca per la prima volta nella letteratura italiana parla chiaramente di suicidio. Per un istante il protagonista, l'Io, si è illuso di potersi dare la libertà dandosi la morte. I «pensier» (V.8) non sono le preoccupazioni, ma i dolori, i pensieri cupi, quelli che riguardano la morte. Nessun poeta medievale parla così chiaramente di suicidio, questa è un grande segno di modernità. C'era il suicidio per amore, ma era un suicidio per finta, una metafora, una consumazione dell'anima. Anche in questo sonetto il poeta parla dell'amore come di una cosa irrazionale, che può spingere l'uomo a gesti folli e privi di logica. L'amore è follia, e in una società molto religiosa come era quella medievale togliersi la vita per amore era l'unica possibilità per ridare dignità a questo gesto (insieme agli esempi della letteratura classica in cui abbondano i suicidi per amore) altrimenti duramente condannato. Ma la grande novità di questo sonetto è che questo non è propriamente un sonetto d'amore. Esso non parla d'amore, o almeno fino a questo verso non ne ha ancora parlato. Perché allora Petrarca parla di suicidio se non è per amore? E perché il poeta dice di aver avuto pietà di se stesso tanto da non togliersi la vita? Petrarca da buon uomo di fede ha avuto paura della dannazione eterna. La pietà verso se stesso lo ha salvato dalle pene riservate ai suicidi. Ma perché allora ha parlato di suicidio? Perché la sua vita appare in questa poesia avvolta da una nebbia che gli toglie il respiro. Tutto è avvolto di nero: il passato come il presente ed il futuro. E' la stanchezza di vivere.
Tutto quello che le parole del poeta non dicono lo dice il ritmo del sonetto: un ritmo ripetitivo, costante, persino monotono che deve dare l'idea di qualcosa che si ripete stancamente senza entusiasmi, Quello di Petrarca evidenziato in questa poesia è un cammino lungo e lento, un camminare sul posto. Ci sono sì indicazioni temporali. Si parla del tempo passato, di quello presente e di quello futuro, ma il presente che emerge da questi versi è un presente vuoto e stanco, proprio come il protagonista.
Importante è anche mettere in luce l'uso della «e». Petrarca dice «e le cose passate e le future» e usa altre volte la congiunzione «e» proprio per dare ulteriore risalto all'idea di quel ritmo lento e cadenzato di cui si è detto prima. Altro elemento da ricordare per mettere in risalto l'importanza del ritmo è la presenza di rime e anafore significative. Le rime del sonetto sono ora -ate - ai - arte - enti e sono rime che non catturano l'attenzione, perché il Petrarca vuole spostare l'attenzione del lettore sugli inizi dei versi, ed è qui che entra in scena l'anafora, scandita dal lungo susseguirsi di «e».
Accenti, pause, ripetizioni, rime e anafore si sommano fino ad annullarsi. Tutto sembra voler accompagnare un'idea fissa, quella di una vera e propria malattia che soffoca il poeta. Gli antichi, Dante ad esempio, la chiama accidia, noi depressione.
Accidioso era chi non riusciva a guardare la vita con la fiducia del cristiano credente. Petrarca sa che questa è una grande colpa, come si può vedere anche nel suo Secretum, ma non può fare niente per venirne fuori. L'accidia, come la moderna depressione è il disgusto per la vita. Presente, passato e futuro non hanno più alcuna importanza.
Dal V.11 al V.13 si ha una importante immagine simbolica. «Veggio al mio navigar turbati i venti; veggio fortuna in porto, e stanco omai il mio nocchier, e rotte àrbore e sarte». Per Petrarca la nave è la metafora della vita umana. Una allegoria classica quella della vita umana vista come una barca nel mare ondoso, un topos usatissimo usato da Petrarca un po' per agevolare il lettore con immagini consuete facile da decifrare e un po' anche perchè non ha probabilmente nessuna voglia, da accidioso-depresso, di inventarne di nuove. Chi è allora il nocchiero se non la sua ragione vacillante e cosa rappresenta l'albero rotto della nave se non la rovina e lo smarrimento sicuro della retta via. Eppure Petrarca non cade nel silenzio. Parla, continua a parlare e questo lo rende molto moderno e poco medievale.

Per concludere bisogna dire che questo è anche un sonetto d'amore. Laura non appare mai e non perché è ormai morta. Laura è un ricordo (V. 9-10) «tornami avanti, s'alcun dolce mai ebbe 'l cor tristo» e le dolcezze sono sicuramente quelle dell'amore. E' come se la parola d'amore si fosse fatta intima, come se Petrarca fosse diventato pudico e non volesse parlarne più. Quello di Petrarca di questo sonetto è l'amore di un vecchio, la nostalgia di un amore che ormai è morto ed ha perso il suo oggetto primario. Restano i «lumi spenti» (V.14). Petrarca ci dice che niente lo avrebbe potuto aiutare neanche Laura. I lumi spenti sono gli occhi di Laura? Forse. Forse il buio si fa luce e viceversa, ed è questa probabilmente una delle grandezze di Petrarca: la capacità di dire tutto ed il contrario di tutto con un semplice verso, è la contraddizione, la paura, la paura e la voglia di ogni uomo moderno ad esplodere nei suoi versi, a lasciare il segno a far sì che tutto questo possa essere associato ad ogni uomo moderno, che lo si ritrovi anche ora negli uomini del duemila.

Racconto...Pensare al presente




PENSARE AL PRESENTE


Maglione blu portato senza camicia su una maglietta bianca, jeans e scarpe
da ginnastica.
Sono le 8 e 10. E' una mattina di fine Novembre.
E' appena giusto che esca in fretta da casa e si diriga al lavoro.
Ma non ha nessuna voglia di pensare così.
Un po' perché per essere le 8 e 10 di un venerdì di fine Novembre ci sono
già 17 gradi di sole tiepido e promettente, un po' perché si sente nella
testa una specie di muro, un po' perché a pensarci bene un lavoro vero lui
non ce l'ha.
Ha 31 anni, sono le 8 e 13, si infila la giacca e la voce di sua madre lo
ferma davanti alla porta: - Vuoi il riso con le zucchine oppure ti faccio il
pesce? -
Ha 8 euro in tasca, la barba lunga di tre giorni e i capelli freschi di
shampoo: la voce della madre gli si ferma dinanzi come un problema e lui si
sente nauseato dal groviglio.
Esca senza una risposta: - Decidi tu. -
Ascensore, quarto piano, l'i-pod con Vecchioni che canta Samarcanda.
Si alza il bavero della giacca, è un gesto meccanico, lo fa dai tempi della
scuola, lo fa in tono normale che sembra dire che tutto sia inevitabile,
come tutto sia sempre perdonabile.
E' in strada, dietro di lui l'odore acre di lacca di un negozio di
parrucchiere, la mattina va aprendosi su se stessa.
- Oggi è troppo bello per lavorare, facciamo qualcosa di diverso, almeno una
cosa di cui domani non dovremo far fatica a ricordare? -
Sms che manda a tutti quelli che ha in rubrica, la rubrica del suo telefono
cellulare.
127 caratteri.
Dopo tre minuti riceve due risposte.
In una c'è scritto: - Invidia. -, nell'altra - Sono a casa, anch'io niente
lavoro oggi, una mezza influenza. -
Respira, ma non respira abbastanza.
Cammina adagio, come se nuotasse.
Arriva all'angolo e svolta a destra.
Via Imbriani.
Sono le 8 e 19, gli ultimi ragazzi si affrettano verso la scuola. Lo
incrociano, lo urtano, lo scansano.
Di tanto in tanto si ferma, si china, si aggiusta le sue calze a righe che
non stanno più su.
All'incrocio dove via Imbriani fa angolo con corso Cavour ha due
possibilità: andare a destra verso il mare, verso la città vecchia, oppure
proseguire diritto per via Dante, percorrere la strada che ogni mattina fa
per andare all'università.
Sono 16 anni che fa sempre la stessa strada.
E' un abitudinario.
Prima la faceva con il fratello a alcuni amici, era quando andava a scuola,
poi da solo, negli anni dell'università.
Un tempo gli piaceva lo scorcio di mare che si intravede da Corso Cavour
attraverso i due identici palazzi della Camera di Commercio e della Banca d'Italia.
Un tempo andare a scuola in una giornata così sarebbe stato un lusso a cui si sarebbe potuto tranquillamente rinunciare.
Terrorizzante-mobile-bisbiglio, era ciò che si sentiva quando si decideva di saltare la scuola. Paura di essere scoperto, il dubbio di star perdendo tempo, la paura delle prime possibili scelte.
Niente mare oggi, mentre percorre via Dante guarda i primi negozi aprirsi lentamente.
Svolta in via Melo e poi a destra verso il giardino di piazza Umberto. Troppo presto per i bambini che giocano con le nonne, troppo tardi per quelli che portano i loro cani a passeggio.
Di fronte a lui ormai c'è l'università. L'edificio intorno al quale si intersecano le vie più trafficate del quartiere.
Un edificio alto e massiccio,una specie di riparo senza che su di esso ci fosse mai vero chiarore.
Prosegue passando davanti ad un'edicola ed al portone dove si trova la sede dell'ufficio legale di un suo amico. E' quello che gli ha risposto, quello che ha scritto: - Invidia! - quello troppo intelligente per fare una cosa furba, quello troppo poco coraggioso per fare una cosa intelligente.
Continua a camminare: la stazione, il sotto passo che porta sulle arterie extramurali, i primi extracomunitari con le loro mercanzie, i portici già pieni di gente in ansia.
La strada è penetrata dal rumore delle automobili che in seconda o in prima "scendono" verso il centro. Sente le macchine passargli accanto, sente la voce di Bruce Spingsteen nei suoi auricolari bianchi.
Il suo respiro trilla come una sveglia che non riesce a farmare, tanto più forte quanto più uno ci fa caso, finché con una marmitta cadente un vecchio furgone iveco innesta un'altra marcia e lui si accorge, come di soprassalto, di essere arrivato all'incrocio fra via Capruzzi e via della Repubblica.
A questo punto è sotto il ponte che separa la Bari murattiana da quella degli anni 50.
A questo punto decidi se tornare a casa o proseguire fino al parco per goderti una stecca di cioccolato fondente e un ricordo da panorama estivo, lasciato là, in basso, sull'erba dove a Maggio e Giugno va a prendere il sole con alcuni amici.
Incrocia piccole vie laterali, ne supera tre a grandi passi, prima Frank Sinatra, poi De Gregori, Rimmel e Generale, e ora Hurricane di Bob Dylan attraverso il suo i-pod.
La strada si allarga negli ultimi 200 metri prima dell'imbocco del parco, i negozi piano piano si diradano e lasciano il posto ad uffici e banche.
Le macchine corrono tutte insieme come pezzetti di legno in un rigagnolo di acqua grigia. La sua mente si allontana innervosita dall'involontaria immagine del suo pranzo che sfrigola nel piatto, dell'acqua maculata di amido di riso che bolle.
Si sforza di pensare a qualcosa di piacevole, si sforza di non pensare a quello che dovrà fare nel pomeriggio, a quell'impegno che ha preso contro la sua volontà e che ormai lo fa sentire in trappola. La cosa sembra certa, in preda al suo disgusto, cerca il telefono.
Niente, nessuna chiamata, nessun messaggio in memoria. Nessun altro ha risposto, nessuno si è accorto di quello che lui ha voluto dire.
Immagina se stesso sul punto di calciare un pallone, ma sente di trovarsi da solo. Nessuno probabilmente andrà a riprendere quel pallone non appena lo avrà calciato.
Tenta di nuovo di raffigurarsi sua madre mentre commenta, troppo vicina o troppo distante, gli avvenimenti appresi dal telegiornale.
- Deve esserci qualcosa a questo punto. - I Doors cantano Love streets, l'acqua che fuoriesce da un tombino rotto e che, giallognola, si arriccia sull'asfalto gli ricorda quelle traiettorie diagonali che faceva quando da bambino correva con il pallone tra i piedi.
A un tratto è certo che ci sia qualche altra cosa in tutto questo, in questa mattina che sta camminando insieme a lui.
Strizza gli occhi al ricordo dei suoi 18 anni. Ricorda la sua prima ragazza, il parco, il suo primo bacio. Ricorda lei sul manubrio della sua bicicletta, ricorda la ragazza e la sua felpa rossa, ricorda se stesso, fratello piccolo di quello vede ogni giorno allo specchio, ricorda lei mentre gli dice: - tienimi Vinci. - ricorda la vergogna quando lei lo lasciò.
- Proviamoci ancora una volta, diamoci un'altra possibilità. -
- Ma io non ti amo, lo sai che non ti ho amato mai. -
E' sull'erba umida del parco che pensa a questo.
La crescente complessità della luce del sole lo fa sentire minacciato.
Vuole andare avanti. Si rialza. Sembra abbastanza semplice.
Sono le 9 e 25.
In trenta minuti sarebbe di nuovo a casa, potrebbe prendere la macchina e guidare verso sud, potrebbe ritrovarsi in perfetta salute sulle strade di un'altra città, può farlo, potrebbe provare a farlo.
Si siede su una panchina invece.
Si sbottona la giacca e guarda la gente passeggiare.
Non vuole che arrivino le dodici e con esse il rimorso di una mattina affrontata così.
Cerca un alibi, una scusa, qualcosa che lo faccia sentire giustificato.
Se fosse andato all'università probabilmente non avrebbe fatto niente lo stesso, proprio come sta accadendo al parco, qual è allora la differenza?
31 anni e non più 18?
Tutto sta nel non essere ridicoli, nel far tutto quel che si deve fare finché non manca che un soffio.
Intorno a lui non c'è molta gente.
Due signore con un passeggino e qualche ragazzo che corre in tuta.
- Scusi signora - dice ad una delle due, calcando sulla prima parola con un peso forzato, come uno storpio che prova a correre - qual è la strada per il centro? -
- Torna indietro - una signora in stivali marroni e gonna nera alza un dito e gli risponde - prendi via Della Repubblica, vai sempre dritto, dopo il ponte c'è Corso Cavour. -
- E se andassi verso destra? -
- Che vuoi dire? Arriveresti a Japigia. -
- Cosa c'è dopo Japigia? -
- Ma tu dove vuoi andare? -
La signora è paziente. Il suo viso ha al contempo qualcosa di materno, di sano e di stupido.
Per la prima volta dall'inizio della mattina si rende conto.
Si volta. Sono le 9 e 35. Sente attraverso i suoi capelli sulla nuca le due donne che lo seguono con lo sguardo.
E' in piedi. Due, tre, dieci passi dalle due signore con il passeggino.
Dieci, quindici, venti secondi, è quello che ci mette per allontanarsi da loro.
L'ariosa sensazione che aveva dentro è rovinata.
Il suo sguardo continua a tornare sul suo telefonino.
Sente di essere stranamente insensibile in superficie, proprio come se la sua pelle si stesse staccando dal suo corpo.
Il rumore delle auto sale tra le viuzze del parco. Quello strepito lo consola, lo fa sentire meno solo, gli dice che è ben nascosto ed è al sicuro ormai, che mentre lui si nasconde il mondo è indaffarato ad essere normale, che gli uomini corrono per mettersi le spalle a terra.
Solo 2 sms dai suoi amici.
Chiunque ti dica come ti devi regolare non te lo dice mai chiaramente.
- Il solo modo di arrivare in qualche posto è quello di decidere prima dove si vuole andare. -
119 caratteri, altre 2 euro e 20 centesimi spesi per mandare il messaggino a tutti.
Le labbra umide, gli occhiali, la barba rossiccia tutta arruffata.
- Non credo. - E' l'unica risposta che vorrebbe leggere, ma nessuno gli risponde, ormai i suoi amici sono abituati a questi suoi sms.
- Perché? Dove andiamo? - Era quello che avrebbe voluto domandare, ma senza corpo, finché quelle parole gli restano in testa, compie un dolce ed inusuale moto d'amore, quelle delle parole che non si dicono ma si vedono.
L'illusione al posto del rimorso e del rimpianto. Sente di essere lui senza neanche doversi guardare allo specchio, sente le risate in bocca ancor prima di mettersi a ridere.

Ah: questo è quello che è successo ieri, questo è quello che succederà domani, questo è quello che vuol dire non voler pensare al presente.

Paolo Nutini...una piacevole scoperta

These Streets

Fresco, sbarazzino, rock quanto basta per non sconfinare troppo nel folk, "These streets" di Paolo Nutini è forse uno dei più interessanti album d'esordio degli ultimi mesi.
Uscito in Italia a fine settembre, l'album del giovanissimo scozzese di padre italiano, si è subito imposto sia attraverso i passaggi nelle radio, sia attraverso i giudizi positivi della critica italiana. Un disco pieno di richiami, di citazioni "dotte", un disco fatto di buona musica accompagnato da testi mai eccessivamente banali, quello di Nutini.
E se i Coldplay e Damien Rice sono ancora un'altra cosa per spessore, eleganze ed originalità, rispetto al più giovane esordiente, c'è da giurare che Paolo Nutini non si sia fatto scappare l'occasione per "rubare" qualcosa da questi suoi maestri. Lo si aspetterà, allora, al varco del secondo album. "Qui si parrà la sua nobilitate! Diciamo, quindi, che è un disco che si lascia ascoltare, un lavoro che alterna ballate a slanci decisamente più rock. Un disco da sentire da soli in macchina o con l'I-pod, ma anche un disco da condividere e, perché no, anche da consigliare.

Il mio migliore amico...un grande Leconte...almeno per un tempo


Il mio migliore amico (2006) **

(Mon meilleur ami)

Un film di Patrice Leconte. Con Daniel Auteuil, Dany Boom, Julie Gayet, Julie Durand, Jacques Mathou, Marie Pillet. Genere Commedia, colore, 95 minuti. Produzione Francia, 2006.



Il primo tempo bello, proprio bello, il secondo no, il secondo è stato una grande delusione. Può bastare questo commento per recensire un film o anche solo per parlarci un po' sopra?
Io dico di sì, dico che questo è un commento superficiale quanto si vuole, ma molto da "spettatore all'uscita della sala".
Patrice Leconte, autore culto per tutti queli che hanno amato "L'uomo del treno", dà vita ad una commedia a due facce, due velocità, due atmosfere. La prima quella tutta francese da commedia dell'arte, fatta di ironia sferzante, trovate grottesche e battute quanto mai azzeccate. La seconda, invece, più da film di cassetta, da stemperato film televisivo, da moderno romanzetto d'appendice con tanto di finale da libro cuore.
Mi aspettavo qualcosa di più dal binomio Leconte-Auteuil, mi sarei aspettato qualcosa di più amaro, qualcosa di meno buonista, di meno rassicurante. Peccato, peccato per c'erano tutti gli ingredienti per lasciare il segno, l'idea era buona, il soggetto parte da Moliere e arriva fino al mal di vivere Montaliano passando da Schopenauer. Cosa c'entrava, allora, quel secondo tempo così hollywoodiano? Vedetelo, comunque, almeno non è peggio delle nostre commedie in salsa rosa...almeno.



venerdì 8 dicembre 2006

Alcune considerazioni sullo stato della ricerca in Italia












Nel 2000 il Consiglio europeo aveva fissato alcuni obiettivi strategici al fine di sostenere ed incrementare l'occupazione, le riforme economiche e sociali dei paesi membri, in un contesto di un'economia e di una società che si intendeva impostare sempre più sulla conoscenza e la ricerca innovativa.
L'obiettivo della Comunità europea era quello di aumentare la propria competitività a livello mondiale puntando ad investire almeno il 3% del pil di ogni paese in ricerca.
Questo nel 2000, sei anni fa.

L'Italia ultima in Europa negli investimenti per la ricerca

Spulciando oggi i dati delle ultime due finanziarie, quella appena varata dal governo Prodi e, ancor di più, quella dell'ultimo governo Berlusconi, è possibile vedere come l'Italia, a fronte di un impegno europeo ben più corposo, investa o abbia investito in ricerca più o meno la metà di quel 3% che ci si era prefissati in sede comunitaria.
Per amore di cronaca va anche detto che nel mondo solo il Giappone e la Corea arrivano ad investire il 3% del proprio pil in innovazione e ricerca, tutte le altre nazioni, compresi gli Stati Uniti, non arrivano a superare in investimenti il 2,70% del proprio prodotto interno lordo.
Quel che però fa sì che l'Italia si ritrovi ultima in Europa in questa speciale e poco lusinghiera classifica, oltre al minor numero di investimenti rispetto a tutti gli altri partners comunitari, è la cronica assenza di una programmazione politica lungimirante, una politica moderna che veda nella ricerca, negli investimenti nella ricerca, l'unico modo per ridare slancio e fiato al made in Italy, per reinserire l'Italia, cioè, in quel circolo virtuso "investimenti-ricerca-profitto" che negli anni 60 aveva gettato le basi per il famoso boom economico.

Il mondo della ricerca italiana

Chi ha avuto la fortuna/sfortuna di vivere il mondo delle Università italiane si è reso facilmente conto che la principale fonte di ricerca attiva è costituita dal lavoro dei Dottori di ricerca (figura che in Italia, però, non ha ancora trovato la propria collocazione nè per diritti nè per statuto) e dai ricercatori. Come non lanciare più di un campanello d'allarme, allora, se, dopo aver detto che l'Italia è, in Europa, la nazione che meno investe per l'Università e la ricerca, si sottolinea anche che il nostro paese è l'ultimo per numero di Dottori di ricerca e di giovani ricercatori?
Non a caso si è usato l'aggettivo "giovani" associato ai ricercatori, perché in Italia la carriera universitaria è molto più difficile e lunga (per motivi che non saranno in questa sede ricordati, ma che sono sotto gli occhi di tutti) rispetto a tante altre nazioni. Nelle nostre Università si rimane ricercatori anche ben oltre i 45 anni, età in cui in altre nazioni si diventa Professori di prima fascia. Negli Stati Uniti e nel resto dell'Europa questo non avviene mai, in Italia, invece, è praticamente prassi consolidata: ricercatore, quindi praticamente precario, fino a 40 anni, se tutto va bene.


La fuga dei cervelli

Si parla spesso ipocritamente di fuga dei cervelli, ma mi chiedo, ovviamente retoricamente, perché un trentenne dottore di ricerca italiano non debba decidere di andare in Inghilterra, in Francia o negli Stati Uniti per lavorare, o meglio, per farsi riconoscere il proprio lavoro, quando qui da noi dovrebbe attendere anni per vedersi bandito un qualsiasi concorso?
Il problema è culturale, acuito spesso da un approccio sbagliato al problema. Manca, infatti, quel circuito virtuoso di cui si è detto in precedenza, manca una programmazione che unisca concretamente e non solo demagogicamente l'Università con il mondo dell'impresa, con il cosiddetto "mondo produttivo". Manca una vera meritocrazia, e questo è purtroppo un dato ampiamente assodato, ma manca anche la tanto pubblicizzata mobilità scientifica, manca una strategia credibile che permetta al nostro sistema scientifico di uscire da quell'ampasse che ci sta portando sempre più a perdere credibilità internazionale.


La valorizzazione dei giovani talenti

Come uscire, allora, da questa situazione? Per prima cosa puntare sui giovani talenti, investando su di loro tempo ed energie, facendoli crescere e raccogliendo negli anni i frutti di questi investimenti.
Indirizzarsi, per quel che concerne l'assegnazione dei fondi, verso criteri di valutazione in cui il riconoscimento del talento conti realmente di più dell'appartenenza a gruppi politici o a conventicole di potere tout court, e, non certo per ultimo, investire, investire sapendo che solo attraverso l'innovazione e la ricerca una nazione può dirsi realmente moderna e competitiva.
Ringiovaniamo allora la nostra mentalità oltre che i posti di potere (ah come sarebbe bello se, come avviene negli Stati Uniti, in Spagna ed in Inghilterra questo avvenisse anche e soprattutto in politica), svecchiamo le università, diamo credibilità al sistema, mettiamo fine a quel clientelismo che paralizza più o meno da sempre il nostro mondo della ricerca e vedremo che si inizierà ad attirare investimenti dai privati, che si arriverà ad attirare partners stranieri e così si riuscirà, solo così si riuscirà a competere con le altre realtà universitarie mondiali.

Quattro passi con le parole...una poesia fatta con i titoli di vecchie canzoni


Ciao ciao,
qui
nella fiera dell'est Dio è morto.
Senza una donna
e con quattro amici
rinnovo le mie emozioni aspettando Godot.

Voglio una donna
,
ma quando dissi che :" L'anno che verrà"

mi avrebbe regalato uno stranamore

stavo invano cercando un altro Egitto.

Siamo solo noi

che ci innamoriamo con il canto delle sirene,

che in via del campo sognamo una donna per amico

e che in una domenica bestiale

oscuriamo la storia

alzando bandiera bianca.

Donne
,
voi che aspirate all'isola che non c'è

e che a muso duro rinnegate una vita spericolata,

invocate una piccola stella senza cielo

quando la morte avrà
spazzato via
il tempo dell'illusione ballando sul mondo
.

Ad Itaca,
con in tasca una piccola mela

cerco un centro di gravità permanente
,
invoco Alice,

sogno Samarcanda

e canto grazie Roma.

Ti prego almeno tu

non farti cadere le braccia
,
perchè anche se non è tempo per noi,

bomba o non bomba
supereremo l'angoscia metropolitana e allora...

...e allora buonanotte fiorellino

e che i muscoli del capitano

ti proteggano in questa nera nera nave

che mi dicono che non può affondare.

La metafisica di Damien Rice


"9"
  1. 9 crimes
  2. the animals were gone
  3. elephant
  4. rootless tree
  5. dogs
  6. coconut skin
  7. me, my yoke and I
  8. grey room
  9. accidental babies
  10. sleep don't weep
La prima buona ragione per ascoltare il nuovo disco di Damien Rice, "9" è il suo lungo lavoro sul tempo della musica e della parola, che non si esaurisce nello splendido album d'esordio "O", ma che continua in queste accattivanti 10 tracce. Come ogni folksinger che si rispetti, Rice è stato segnato dalla scoperta di un'atmosfera, di una intimistica legge d'equilibrio tipica delle nuove contaminazioni fra la musica folk di matrice dylaniana e le nuove tendenze indie. Cosa vuol dire? Una cosa semplice e drammatica, che Damien Rice ha còlto la crisi di un mondo, quello del voler per forza comunicare qualcosa al maggior numero di persone possibile. Che senta, allora, di avere un tempo, e lo senta scorrere dentro di sé, ora più lento ora più veloce, nell’attesa "che lo zucchero si sciolga nel bicchiere" o che l'idea amata giunga all’appuntamento , nell’allungare o nell’abbreviare una sillaba mentre canta, deve rimanere un "problema" di pochi e per pochi. Sentire che il mondo ha un tempo, con le sue scadenze e i suoi imperativi, con le sue epoche e le sue ere. La musica non parla per epoche, ma per ere, per fasi intime ed intimistiche, è di questo che si deve parlare parlando di Damien Rice e dei suoi primi due album. Semplice. Ma tragico: perché questi due tempi, quello del mondo e quello della coscienza, non comunicano tra loro. Ed è in questa frattura che si deve compiere una scelta, è in questa strana ed inusuale intercapedine che si colloca la poetica di Damien Rice. "In questa frattura la mia coscienza precipita nell’abisso dell’alienazione, o si arresta e si liquefa come un orologio surrealista nella dimensione dello psicotico.
In questo sta il tragico dell’esistenza nei testi del cantante irlandese: nel rischio perenne dell’abisso sul cui orlo siamo tutti, nella cristallizzazione dell’anima, nelle lancette dell’orologio interiore che follemente possono ruotare all’indietro. Eppure questo rischio viene evitato, di norma. Come mai? Cos’è che ci mantiene in equilibrio su questo bordo ? Il lento scorrere della melodia, il controcanto di Lisa Hunningam, il lento schiocco del pianoforte, il violino appena accennato, la chitarra.
La parola di damien Rice non salva se stessa, ma semplicemente la si usa per provare a vedere la vita delle cose da lui raccontate come divenire, come fluire. Ecco la scoperta di Rice: il tempo del racconto in musica come intersezione problematica della coscienza nel mondo delle "cose", e del mondo nella coscienza. il piano del vivere lo scopriamo sempre più ispessito, via via che su di esso scopriamo collassare un numero sempre maggiore di tempi e di piani? E allora vorrà dire che raccontando questo piano ne dovremo aggiungere sempre un altro, sempre diverso dal precedente. L'importante sarà non fermarsi mai, vero Damien?

La scoperta in bianco e nero di una Fiorella a colori


Onda tropicale... il nuovo disco di Fiorella Mannoia.
Uscito in Italia il 20 Novembre, è un disco pieno di ombre e luci, di energie positive e forze contrarie, un lavoro ricco di raffinate musicalità a cui si affianca la solita capacità comunicativa dell'artista romana racchiusa nella sua particolarissima voce.
Niente di nuovo, verrebbe da dire, conoscendo ed apprezzando la vitalità artistica della Mannoia, eppure quest'ultimo disco segna inequivocabilmente una svolta per Fiorella Mannoia.
Si è mossa, ha dimostrato di essere artisticamente in movimento, e questo non è certo poco. Ha fatto un passo, un passo decisivo rispetto agli ultimi suoi lavori in studio. Il problema adesso è vedere se questo passo è un passo avanti o un passo indietro. La questione è: è giusto cercare sempre nuove strade anche quando queste sono rischiose oppure è sempre meglio trincerarsi dietro "quel che si sa fare'". Messa così la risposta appare scontata: meglio sperimentare, innovarsi, evolversi, che restare fedeli al proprio angolino di terra fertile. Eppure non sempre ci si può fermare a questa considerazione.
Pur riconoscendo l'elegante ricerca musicale, i ritmi "tropicalisti", quelli velosiani per intenderci, sono, infatti, elegantemente assemblati con lo spirito melodioso tipico della canzone nostrana, il disco, comunque, pecca proprio in "movimento". E' monocorde, non resta, è un disco da sottofondo, uno splendido esempio di musica da serata tranquilla in casa.
Una bella parentesi quella di Fiorella, speriamo però che i treni a vapore ritornino.
Perché dico questo?
Perché con la scelta "brasileira" la Mannoia ha fatto una scelta di anticonformismo conformista.
Un'operazione di nicchia alla moda...

Cuori...un film appena visto


Cuori (2006) *** (Da vedere)

(Coeurs)

Un film di Alain Resnais. Con Laura Morante, Pierre Arditi, Lambert Wilson, Isabelle Carré, Claude Rich, André Dussollier, Sabine Azéma. Genere Drammatico colore, 125 minuti. Produzione Francia, Italia 2006




Cuori, l'ultimo film di Alain Resnais, ha tutto per essere definito "film Francese": bello, lento, delle volte anche troppo lento, attori appropriati alla parte che svolgono, molto alcool, tutto girato in interni, tanto che potrebbe benissimo essere portato in scena, a teatro, senza dover stravolgere più di tanto la sceneggiatura originaria. Un classico film francese, insomma, uno di quei film che ti lasciano in bocca una sensazione agro-dolce, buona nell'insieme, ma che non basta a darti l'immediata voglia di rivedere il film la sera dopo averlo visto per la prima volta.
Solitudine, malintesi, rimpianti, il classico amor fou che se non si trasforma in amour à mort è solo per la pigrizia sentimentale dei personaggi...tutti ingredienti che si miscelano elegantemente in 125 minuti di dialoghi mai banali e sempre coerentemente malinconici.
Ambientato a Parigi, una Parigi riconoscibile solo attraverso i primi 40 secondi del film, una Parigi innevata come forse non si è mai vista in realtà, una Parigi che ovattata quanto onirica sembra abbracciare le vite "circolari" di tutti i personaggi, con Cuori sembra di essere di fronte ad un cinematografico ammodernamento del classico dialogo cinquecentesco: un Princeps sermonis, in questo caso non tanto un personaggio, ma un coacervo di sentimenti simboleggiati dalla neve che cade incessantemente, a fare da fulcro e tanti personaggi, mai troppo simili nè troppo diversi fra loro, che si alternano sulla scena.
Un film gradevole, un film in cui il pensiero dello spettatore non è subito orientato verso un finale prevedibile, un film mai volgare anche quando avrebbe potuto rischiare di esserlo.
E la neve che cade?
La neve serve ad attutire i passi, serve a evidenziarli e poi nasconderli, la neve è il sentimento sepre uguale e sempre diverso di ognuno di noi.

giovedì 7 dicembre 2006

Piccolo racconto





SCUSAMI SE TI LASCIO

Mi piace dire - Ti amo - perché so che può essere una bugia.
Oggi mia moglie mi ha lasciato e vorrei che fosse una bugia.
Per caso ho detto che sono triste?
Forse esagero ma è possibile esagerare quando si è tristi?
Comunque mi sa che triste non è la parola giusta.
Non so perché mi ha sposato, né tanto meno perché mi ha detto di avermi anche amato.
Forse l'ha detto perché poteva. Poteva dirmelo.
Ora che mi ha lasciato non potrà più nemmeno fare finta di amarmi.
E dire che è bravissima nel far finta, mi piaceva crederci.
Sono ridiventato single in poco più di tremila giorni.
E' strano se lo si vede così.
Ho paura ma non voglio dirlo a nessuno.
Io devo essere felice, perché non esserlo non servirebbe a niente, non sarebbe una buona vendetta.
Felice? Sì, ma da dove si inizia?
Non ci sono più abituato.
- Dobbiamo parlare. - Due parole.
Le tragedie iniziano sempre con due parole.
Ora che ci penso anche - Ti amo - è composto da due parole.
Sto meglio quando non penso, sto meglio quando faccio finta.
- Non ti odio. - Sarebbe più facile dirle questo, farei una figura più dignitosa e poi così mi sembrerebbe di guadagnarmi una specie di invisibile ricompensa.
I miei argomenti, invece, vengono risistemati in ordine diverso, le mie parole messe fuori posto. Odio monologare.
- Credo che amerò tutti quei ricordi che tu invece rifiuterai. -
Conoscenza, amore, lenta sopportazione.
E' come un esercizio di rianimazione cardiaca lo stare insieme.
Ne sentirò comunque la mancanza, eppure so che non dovrei lasciarmi trasportare.
Dovrei evitarlo. E invece finisco per odiare me.
Dovrei uscire e sentirmi bello e non rimanere pigramente a casa con la mia spettinatura perfetta a leggere e ad aspettare un suo messaggio perfetto.
Morboso.
Voglio che si penta, voglio che soffra come me e addirittura che mi ami.
Voglio che mi auti a non dimenticarla.
Sei e ventidue di Domenica sera.
Un amico mi chiede se sto male.
Gli dico di no.
Non mi serve la sua versione di come dovrei essere.
A volte mi son sentito come se avesse avuto tutta la mia vita a disposizione e non si fosse mai presa il fastidio di farci realmente caso.
Non è mai cambiata in tutti questi anni.
- Se mi vuoi bene devi stare male con me. -
Forse lo diceva perché era lei a non volermi sul serio.
Non potrò mai dimenticarla, al massimo so che potrò ricordarla in maniera sbagliata.
Le frasi sono terribili, i pensieri di più.
Sono limitato.
Io dovrei essere il motivo per cui non dovrei innamorarmi più?
Non c'è bisogno di preoccuparsi.
So come andrà a finire, perché questa domanda è la verità e la risposta è comunque una bugia.
So come andrà a finire, ma non so la risposta.


La notte ad Arles



...com'erano la notte ad Arles nasce per gioco, nasce per trovare un altro modo per perdere tempo, nasce affinché non perda le mie stesse tracce.
Lo so che questa non è una cosa seria, è la mia vita oggi e sì che non è poesia è solo un attimo di chiassosa bellezza.
Non importa chi sono, nè se posso apparire una persona seria o no. Non mi interessa questo, mi interessa essere me stesso...uno nessuno e centomila.
E' e sarà un processo in itinere, uno spazio aperto dove ci saranno pensieri, commenti, idee, polemiche, sfoghi. Un quadro dalle più cornici in cui ognuno, se ne avrà voglia, potrà lasciare quello che meglio lo rappresenta.

Arles-mondo-Arles andata e ritorno e senza passare dal via e senza mai dimenticare le stelle!