venerdì 7 marzo 2008

Uccidiamo Banfi e Antonio Cassano


























Sono di Bari e in fin dei conti Bari mi piace. E' la mia città e anche se questo non basta per definirla bella, ha qualcosa che forse ancora non so dire, ma che non scambierei con nessuna altra città al mondo. Bari non ha una sua precisa identità. A suo modo è una città di frontiera, è una non città.
Penso però che Bari debba crescere moltissimo nei prossimi anni. Ogni volta che vado al nord sento qualcuno dirmi: - Ah, sei di Bari? Non si direbbe da come parli. - come poi se noi parlassimo tutti come Lino Banfi o come Antonio Cassano!
Ecco quello che noi baresi dobbiamo fare. Impegnarci per uccidere Banfi e Cassano, due talenti o presunti tali che però ci hanno inchiodato a stereotipi, a macchiette, ad una immagine provinciale che ci farà rimanere "emigranti del Congo belga" nella nostra stessa città.
Basta con il dialetto sempre e ovunque. Basta con il pesce crudo, con le orecchiette, con la "a" che diventa "e". Noi non siamo questo, noi baresi non siamo Matarrese, noi baresi non siamo quelli che scippano i turisti nella città vecchia. Noi abbiamo un potenziale culturale ancora grezzo che attende solo di essere raffinato.
Uccidiamo Antonio Cassano, mettiamo una benda in bocca a Lino Banfi (specialmente questo degli ultimi 15 anni) e ripartiamo da quello che ci sarà.
Il futuro non è più quello di una volta!

Il treno ha fischiato



























Il treno ha fisciato!
Capito Fabrizio? Il treno ha fischiato!
Cosa potrebbe significare questa frase per me, o per chiunque altro oggi?- pensa Fabrizio mentre torna a casa dopo il lavoro.
Fabrizio ha fatto l'amore stasera, ha mangiato una pizza, ha scopato con una donna che gli ha detto: - dai De Andrè, più forte, sbattimi più forte! -
Ha fatto due telefonate, ha provato a scherzare: - sto bene, oggi è stata una bella giornata e papà come sta? -
Fuori è quasi giorno ormai. La coca cola è nel frigo a rinfrescarsi. Tra poco quando Fabrizio la berrà gli tornerà in mente, in ordine sparso - la pizza, il pube quasi senza peli di lei, la pioggia, la memoria, la voglia di ripetere una giornata così.

mercoledì 5 marzo 2008

this is the end





















Oggi sono contento.
E' come se mi fossi tolto un grosso peso.
Oggi Fabrizio non ha motivo di romperci i coglioni

martedì 4 marzo 2008

...e tutto non è altro che quello di prima



























Ieri notte è passato un temporale che non riesco a dimenticare.
Quando mi son svegliato ho avuto la sensazione di essere solo.
Il mare era bagnato.
Pur sapendo che non poteva essere altrimenti mi sembrava un'immagine insolita.
In quel momento mi è sembrato di essere felice.
Più tardi nella mattinata il sole ha asciugato tutto. Il vento si è alzato e tutto è tornato come prima.

domenica 2 marzo 2008

Come sarebbe bello se nessuno andasse a votare

Per la prima volta in vita mia non andrò a votare il 13 aprile.
Ho sempre votato fino ad ora: referendum, primarie, elezioni provinciali e scolastiche, sempre.
Ma questa volta sono schifato. Schifato da una legge elettorale che impone le preferenze agli elettori. Noi possiamo solo mettere la croce sul partito e poi è il partito a scegliere, anzi ha già scelto. Mi ha fatto schifo (è l'unico aggettico che mi viene) leggere un'intervista a Gianrico Carofiglio, futuro eletto per il partito democratico, in cui già veniva chiamato onorevole, tanto anche se nessuno avesse avuto voglia di votare personalmente per lui, comunque lui sarà posto dal partito in una posizione tale da essere eletto lo stesso.
Ma è possibile una cosa del genere?
Ho sempre diffidato da chi qualnquisticamente diceva che "destra e sinistra" eran tutti uguali, ma in questo caso nessuno ha voluto realmente cambiare questa leggere elettorale, perchè conviene a tutti i partiti. Si risparmia sulla campagna elettorale, sono i veritici a decidere e non più gli elettori, è un pezzo di democrazia che vien meno nell'indifferenza di molti.
Io non voto più!

La prima cosa


























Qual è la cosa che di solito pensate dopo aver fatto l'amore?
La primissima cosa.

Quelli che...ti chiamano fortunato- almeno tu un lavoro l'hai trovato!





















Fabrizio De Andrè beve un sorso di acqua minerale.
Ha accettato un lavoro al comune per soldi, ma non ama quello che fa. Lo fa e basta.
Nove ore al giorno in cui non è lui. Nove ore al giorno in cui si è costretto a dire sempre di sì.
Nove ore di vergogna.
Spera un giorno di vedersi lontano da lì o con un lavoro che gli dia più serenità o con la forza di aver mandato tutti a fanculo!
Non è tanto del lavoro in sè che Fabrizio si lamenta, quanto della concezione utilitaristica che la gente dà a certe occupazioni.
Le ore in quell'ufficio sembrano come le ore di un viaggio che non sembra finire mai.
Alla fine stai sempre lì a guardare l'orologio e la colpa non è più tua o dei tuoi capi, la colpa di quella sofferenza è dell'orologio che non va mai tanto velocemente.
Lo guardi attentamente ogni trenta secondi e non ci credi,
Dopo trenta secondi sono passati solo trenta secondi.
E non ci credi.

La televisione? E se ogni tanto la spegnessimo?










Alzati che si sta alzando la canzone popolare, se c'è qualcosa da dire ancora, se c'è qualcosa da fare alzati che si sta alzando la canzone popolare, se c'è qualcosa da dire ancora ce lo dirà, se c'è qualcosa da imparare ancora ce lo dirà”. E’ la canzone popolare di Ivano Fossati, una canzone di qualche decennio fa, una canzone che spesso è stata riproposta in questi anni per motivi diversi: politici, di comunicazione, come slogan.
Una canzone, come detto, che si pone come testimone di un’epoca ormai lontana, di esigenze culturali diverse, ma non sempre ancora superate. Erano gli anni in cui si parlava di difendere la cultura popolare dall’invasione globale, anni in cui gli intellettuali dicevano che la cultura delle classi dominanti avrebbero soffocato lo spirito del cosiddetto popolo. Questo era Pasolini, questo era il pensiero di tanti intellettuali negli anni tra il sessantotto e la metà degli anni settanta. Anni in cui il mezzo televisivo indubbiamente favorì l’unificazione dei gusti, delle abitudini, del linguaggio di milioni di italiani. Oggi la situazione è diversa. Siamo invasi in tv da fiction, da trasmissioni in cui si parla in dialetto, in cui si mettono in vetrina linguaggi, tic, modi di fare o look del “popolino”.

Parliamo, quindi, di televisione oggi e partendo da quello che milioni di italiani hanno visto la settimana scorsa durante il festival di Sanremo cerchiamo di mettere a confronto due contrastanti opinioni sull’industria culturale televisiva e sulle sue destinazioni. La posizione di chi vede una possibile conciliazione tra cultura alta e bassa, tra spettacoli culturali e mondo della televisione e di chi invece vede nelle forme della cultura popolare, oggi totalmente dominate dal fenomeno televisivo, una grave minaccia per l’alta cultura.
La televisione ha un suo potere oggi in Italia? E questo potere influenza anche la cultura? Questo in effetti è oggi l’elemento nuovo di un dibattito che altrimenti rischierebbe di essere sempre più sterile e senza costrutto.

La televisione è un formidabile mezzo di diffusione e di amplificazione delle notizie e degli eventi. Perché non farlo diventare anche un veicolo di promozione dei beni artistici e culturali? Sembra buon senso, ma chi ragiona in questo modo non tiene conto del fatto che la televisione, come d’altra parte ogni altra forma di comunicazione, non è un mezzo neutro. In particolare la sua natura di contenitore favorisce la contaminazione tra generi, forme, messaggi diversi tra loro. Si manda in onda il festival di Sanremo dopo la notizia della tragedia di Gravina e ci si scandalizza, mentre magari ci dovrebbe chiedere quale sia il senso del rapporto tra cultura e televisione e che questo non dovrebbe essere poi così superficiale, e che la cultura dovrebbe avere la forza per diventare ciò che oggi non è, la forza che impronta e migliora la qualità della televisione nel suo complesso.

La cultura di questi anni ha questa forza? E poi è veramente giusto trasferire i modi della cultura alla televisione?

Il linguaggio televisivo risponde a dei canoni di immediatezza. La cultura non è una formulina già pronta per essere incapsulata e amplificata da uno schermo e i risultati della cultura in tv sono sotto gli occhi di tutti. La cultura non è qualcosa di serioso, che si è espresso storicamente attraverso altri mezzi, come i libri o altro. La cultura è un vero mezzo di trasporto un mezzo di trasporto, proprio come un treno. La gente è condotta dalla cultura. La televisione invece è un tritatutto, un frullatore, una impastatrice. Non è solo divertimento, la televisione è un grande contenitore, si trova quello che si cerca. La televisione dipende da noi. Può mandare messaggi, può essere terapeutica, ma può essere anche spazzatura. La cultura non deve aver paura della televisione. Non è la televisione ad aver messo in crisi la cultura italiana. E’ troppo facile vederla così, troppo facile dare la colpa alla tv. La cultura, quando è vera cultura, non ha paura del banale. È il "fantasma" della banalizzazione di cui bisogna aver paura.

La banalizzazione corrisponde all’incapacità di porsi domande. Questa è la vera banalizzazione. La banalità può nascondersi dietro il "quotidiano" della televisione, dietro l’assenza di domande.

Sono io sono proprio io che non mi guardo più allo specchio, per non vedere le mie mani più veloci né il mio vestito più vecchio e prendiamola tra le braccia questa vita danzante, questi pezzi di amore caro, quest'esistenza tremante, che sono io e che sei anche tu, che sono io e che sei anche tu”.
Questa è la televisione, uno specchio deformante, ma che parte sempre da noi stessi. Certo, influisce non poco su tutto quello che noi facciamo, sulle parole che usiamo, sulle nostre scelte, ma non è la televisione il grande male, è la nostra assenza di problematicità ciò che rende la televisione così spesso mortificante.

Teniamo allora Sanremo, non è questo il male, il male, casomai, è accettare tutto questo senza farsi mai domande. Tipo: perché non spegnerla?