sabato 12 maggio 2007

...ma un bel giorno cambierà









Eppure ci sono ancora persone che credono di poter controllare i propri sentimenti, persone che si ripetono quello che devono fare e quello che non è giusto che loro facciano..
Non si può vivere così per troppo tempo, prima o poi i conti si fanno. Il “devo farlo”, il “devo comportarmi così” alla fine si paga sempre e si paga fino in fondo.
Non dico che il libertarismo affettivo sia sempre un bene, anzi, provoca parecchie scosse, non è certo propedeutico ad una stabilità emotiva, però…però almeno ci permette di mettere sullo stesso piano rimpianti e rimorsi.

Se voglio qualcosa, se attraverso un amore, un sogno, un ideale, una persona fisica io sto bene, non capisco perché io dovrei rinunciare a questo. Io voglio tutto, non voglio essere obbligato a fare scelte.
La politica degli aut aut è una politica fascista in amore come in sociologia.
Non voglio essere costretto, perché poi l primo intoppo sarò assalito da rimpianti e rimorsi insieme, non uno per volta, ma tutti insieme, soffocato da frasi tipo…”se solo avessi fatto quello che volevo fare”…”se avessi avuto più coraggio”.

Che palle! Io non voglio ridurmi così, io non voglio essere costretto a questa forma di ottusa passività. Perché poi non è vero che sono delle scelte. Quando io dico “vorrei ma non posso” non sto scegliendo, sto subendo, è molto diverso. Anche io tante volte ho commesso questo errore, anche io sono scappato prima ed invece di scegliere. Sto ancora male per quello che ho fatto.
Allora non nascondiamoci dietro a scelte di comodo, mettiamoci in discussione, solo così si cresce, perché poi se si arriva al bivio del “devo e posso” vuol dire che qualcosa in noi si è accesso…non commettiamo il delitto imperdonabile di spegnerlo…questo sì che non finiremo mai di rimpiangerlo.

venerdì 11 maggio 2007

Un unico diritto sentiero: la parola. Riflessioni orazione nel Don Chisciotte di Francesco Guccini










Personalità contraddittoria quella di Alonso Chisciano, divisa tra una trasparente lucidità di pensiero, di eredità rinascimentale, tesa sempre alla ricerca della verità, e un temperamento romantico che lascia il posto al vago fantasticare dell’immaginazione. Alonso Chisciano è Don Chisciotte, un grande simulatore e dissimulatore di se stesso, proprio come ogni poeta, come fa dire al suo Fernando Pessoa Roberto Vecchioni nella canzone Lettere d’amore. Cosa c’entra, allora il cavaliere errante della Mancha e Orazio, il poeta del Carpe diem? Qual è il filo rosso che li unisce?

E’ la volontà di nascondersi, che è ad un tempo anche una volontà di mostrarsi e preservarsi, come dimostrano alcuni passaggi delle satire oraziane. Dobbiamo vedere allora in questo atteggiamento, più che una pronunciata timidezza, l’intuizione precoce che la felicità, e di conseguenza la verità che questa illumina, si riesce a preservala solo se viene dissimulata.

La ricerca della verità, allora, quella obiettività indirizzata non solo al mondo ma prima di tutto verso se stesso, fu talmente importante per Orazio che, parafrasando Stendhal potremmo definirlo egotismo, ovvero il culto dell’ego unito alla conoscenza di sé.

Ho letto millanta storie di cavalieri erranti,
di imprese e di vittorie dei giusti sui prepotenti
per starmene ancora chiuso coi miei libri in questa stanza
come un vigliacco ozioso, sordo ad ogni sofferenza
.”

dice il Don Chisciotte Gucciniano, personaggio-canzone, simbolo dell’album Stagioni del 2000, così parla ed è lo specchio del suo agire. La ricerca della verità, infatti, per quanto a prima vista possa sembrare una contraddizione nell’eroe di Cervantes va di pari passo con quella della felicità, è quello che si nasconde dietro le righe. Ciò che per gli altri appare una contraddizione, per il Chisciotte, per il “romantico rottame” che canta Guccini è solo una coincidentia oppositorum. Come un certo Orazio della satire, cambia le carte del gioco; unisce immaginazione e senso della realtà, logica e vaghezza, facendoli risultare due facce della stessa medaglia. Ciò sta alla base della sua estetica, ma le radici di questo atteggiamento si trovano molto lontano, già nella loro infelice infanzia. Orazio con la sua origine sociale e politica, il cavaliere errante con la sua vita fatta di sogni e letture. Entrambi in conflitto più o meno latente con la società, Orazio nei suoi Epodi, Don Chisciotte nelle sue avventure, con quella società pronta a giudicare ogni slancio di immaginazione, sintomatico di ogni temperamento “passionale”, come un sintomo di errore o, nel caso di Don Chisciotte, addirittura come segno di follia.

Il paradosso della vita è per Chisciotte proprio un ‘dire disdicendo’. Alla base di questo paradosso sta il concetto, anch’esso di conseguenza paradossale, dell’autonomia del pensiero. Il concetto della vita per la vita contiene già in sé quello opposto della mimesis del mondo. Il pensiero può essere una rappresentazione del mondo solo se è supposta la sua autonomia dal mondo; in altre parole, il pensiero solo dal proprio interno, solo nelle azioni, può riflettere il mondo. Per l’eroe gucciniano se il pensiero non fosse consapevole di ciò, risulterebbe solo astratto e verrebbe meno al fine che si è prefissato, ovvero quello di proporre una valida alternativa al ‘tutto vigente’.

Mi vuoi dire, caro Sancho, che dovrei tirarmi indietro
perchè il "male" ed il "potere" hanno un aspetto così tetro ?
Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità,
farmi umile e accettare che sia questa la realtà ?

L’autonomia del pensiero è in questa strofa finale della canzone di Guccini. Essa comporta allora che il pensiero-azione sia ad un tempo apparenza ed essenza; vale a dire che solo manifestando la propria apparenza, il suo essere forma e quindi finzione, può arrivare alla sua essenza.

Questo per Guccini. E in Orazio? Nell’Epodo IV il poeta attacca con toni aggressivi l’arrivismo di una certa società, oppure negli Epodi XII e XV punta l’indice in maniera contrastante sulle gioie e sofferenze dell’amore. Siamo di fronte al cosiddetto espressionismo oraziano, non certo una posa letteraria, ma un modo schietto, non costruito, di vedere il mondo e la società. circostante. E se Chisciotte esauriva nei suoi ideali civili l’esigenza di equilibrio, Orazio teorizza quell’autosufficienza nelle sue Satire. Secondo questo punto di vista, allora il modus rispecchia nel pensiero del poeta la realtà senza operare scelte aprioristiche. Per Don Chisciotte lo specchio è, allora, metafora della finzione “eroica” dalla quale, come un riflesso, si intravede però la realtà.

Il “satiresco” o il “satirico” oraziano si nutre di letture della società che in qualche modo alterano la realtà, come le letture cavalleresche di Don Chisciotte, di modo che l’eroe del romanzo crede che sia la realtà a non essere vera, ovvero la scambia per un illusione. Di qui il necessario fallimento dell’eroe cervantiano, di qui il trionfo di quello Gucciniano, che non vede vanificato ogni sforzo di conciliare il suo ideale con la realtà. Perchè l’originalità della canzone di Guccini sta proprio nell’aver unito romanzesco e realtà, nell’aver capito che l’essenza di realtà è lecita solo attraverso l’apparenza dello specchio: solo attraverso la parola che in qualche modo è specchio del pensiero dell’autore e della società.

Sancho ascoltami, ti prego, sono stato anch'io un realista,
ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista,
l'apparenza delle cose come vedi non m'inganna,
preferisco le sorprese di quest'anima tiranna
che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti,
ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti.
Prima d'oggi mi annoiavo e volevo anche morire,
ma ora sono un uomo nuovo che non teme di soffrire.

In questa tensione tra dire e non dire, o meglio tra dire, disdire e agire, l’arte delle due poesie, dei due modi di pensare, manifesta la propria verità. Una verità che ancora una volta non può che essere paradossalmente una non verità, per il solo fatto che a dirla è l’apparenza, la finzione della forma: la parola.

Ma cos’è, allora, questa verità? Per Guccini, non solo nel suo Chisciotte, è la risposta alla domanda: è promessa o inganno? e la risposta è ancora una volta un paradosso: la verità è la promessa di un inganno; è promessa di felicità, ma una promessa che, leopardianamente, non viene mantenuta. La vita promette ciò che non può promettere, altrimenti sarebbe redentrice e mentirebbe spudoratamente; invece, proprio per il fatto che la vita sa di non poter mantenere la promessa, si salva. Bisogna quindi continuare a sperare anche se non c’è più speranza, è con questo concetto che Guccini chiude la sua canzone “sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte”.

Anche in Orazio, in maniera diversa e per motivi diversi, bisogna continuare a “fare vita” perché solo così, dall’alto della sua finzione letteraria, può dare verità alla vita, può descriverla.

Tutto ciò in due mondi diversi, nella letteratura di un poeta del I secolo e nella canzone di duemila anni dopo. Tutto questo in un intreccio di generi e pensieri che può aversi solo confidando pienamente nelle forze dell’arte, anzi, avendo avanti a sé per unico intento quello artistico, la letteratura come forma di riflessione sull’esistenza, come sogno, come diritto-curvo sentiero che si attraversa con la parola.

La festa di San Nicola a Bari
















Con tutto l'affetto, la simpatia e la curiosità che mi possono legare all'esperienza anche personale delle feste patronali, qui a Bari siamo in piena festa nicolaiana per chi non se ne fosse accorto, c'è una specie di dogma che non mi ha mai convinto, ed è quello che vuole certe manifestazioni moralmente superiori alla società che le ha volute ed organizzate. Lo diceva lo storico economista Max Weber, ma lo aveva detto in un altro modo anche Giacomo Leopardi nel suo Zibaldone, ed è quello che dice Francesco De Gregori a metà degli anni '80 nella celebre canzone La storia: nella massa l'uomo esprime il peggio o il meglio di sè, perchè "la storia siamo noi, nessuno si senta escluso." Oggi, allora, è di questo che voglio parlare, di come sia cambiato il concetto di massa e quindi di storia, di come questa sia stata segnata indelebilmente dalla passività mediatica ed in particolar modo dalla spettacolarizzazione televisiva, anche e soprattutto per quel che riguarda eventi di ampia partecipazione popolare.

Per iniziare mi sembra importante dire che comunque la pensiate sull'argomento è evidente che ognuno di noi ha un'idea diversa di festa, specie di festa pubblica, in cui parte di una cittadinanza si ritrova raccolta all'interno di uno stadio o di una piazza. Io, sinceramente, non ho mai sentito nessuna appartenenza nicolaiana, ma ho sempre guardato con rispetto a chi, invece, aspettava i tre giorni di maggio per celebrare con sentita partecipazione la festa del Santo patrono. "E poi la gente, perchè è la gente che fa la storia, quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare". E già, perchè è la gente che fa la storia, e la storia è lo specchio di chi la fa, quella grande madre matrigna, che alla fine ti presenta sempre il conto, imbattibile nell'arte del sacrificio personale, il cui senso di partecipazione collettiva è la più antica delle droghe di massa, la principale causa di quell'infantilismo perenne che segna da sempre il carattere nazionale di noi latini. Perchè poi è questo lo spirito di certe adunate di massa, ritrovarsi tutti insieme, proprio come è successo quest'estate per la vittoria del campionato del mondo di calcio, tutti insieme per sentirsi accomunati da una identità comune, per non "restare chiusi dentro casa quando viene la sera". Tutto bene, direte voi, ma perchè non ci chiediamo allora cosa sono oggi le adunate di piazza? A cosa servono, cosa sono diventate? Sono reality show in cui non si richiede alcuna abilità, tutti partecipano, tutti si sentono protagonisti, tutti credono di esercitare una loro libertà, "la storia siamo noi", noi che in questo modo crediamo di farla. Ecco perchè questa sera, un po' controcorrente, voglio ribaltare il significato della canzone di De Gregari. Voglio spezzare una lancia nei confronti di chi non solo non ama partecipare a queste manifestazioni, ma spera che questi giorni passino il più velocemente possibile, insomma farmi portavoce di chi dice: questa storia non sono io!. Una minoranza direte voi, sì, forse, ma anche la minoranza in democrazia ha diritto ad avere una propria voce, ha diritto ad essere rispettata. Proprio per questo, senza scadere nel retorico "come eravamo", mi vien voglia di dire che ormai anche le feste di popolo, nell'accezione migliore del termine, sono figlie del populismo televisivo, nel senso peggiore del termine questa volta. Negli anni settanta Pasolini diceva che gli italiani sarebbero stati plasmati non più da ideali politici, ma da ideali televisivi. Così purtroppo è stato: basta vedere qualche partitella di calcio giocata dai bambini, tutti piccoli Del Piero o Ronaldo, tutti pronti a ripetere gesti e piccole manie dei loro divi televisivi. Anche la festa di San Nicola ha subito questa impronta, purtroppo. Tutto viene imposto, chi si mostra annoiato, ribelle o ironico, chi si pone oltre il cerchio della massa, dimostra di non aver capito il vero senso della festa ed è escluso. Non c'è più spazio per una devozione personale, autentica, tutto è show: la caravella, le frecce tricolori, la sfilata dei soliti politici e così via. Siamo ridotti al rango di spettatori, tutti quanti, "quelli che hanno letto un milione di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare", siamo falsamente mobilitati, perchè in realtà siamo pubblico pieni di divieti, siamo clienti, perchè queste feste fanno circolare denaro, perchè il bambino vuole prima la pizzetta e poi il gelato, il babbo si fa la sua birra e così via. Per carità questo non è un male se serve a dare ossigeno all'economia di una città sempre alla canna del gas, anche se poi in queste circostanze prolificano quelli che non rilasciano scontrini ad esempio e che alimentano l'evasione fiscale, o quelli che non pagano adeguatamente lo straordinario ai propri dipendenti. Ma questo è un altro discorso, perché quello che io contesto non è tanto questo, è l'operazione culturale che si è insinuata dietro queste occasioni di festa. Ci hanno abituati alla passività, a scelte fatte da altri, a perdere il vero senso della festa patronale. Io non voglio credere in qualcuno, ma in qualcosa, questo è il punto, è da qui che dovremmo ripartire per rivivere in pieno lo spirito della festa di San Nicola. Mi chiedo, invece, quanto ci sia di religioso in questi tre giorni di festa? Ma a farsi certe domande si corre il rischio di essere troppo impopolari, di rovinare tutto. E' meglio tornare al punto di partenza, da dove siamo venuti e da lì provare a lanciare piccole provocazioni, come fuochi di artificio nella notte buia. Che San Nicola ci aiuti, allora, che ci dia una mano a ritrovare quel senso della "storia che dà i brividi, perchè nessuno la può fermare", nessuno la può imporre e ancor di più manipolare.

martedì 8 maggio 2007

Traduzione fatta sotto il sole



















Ed è così
proprio come tu hai detto che sarebbe stato
la vita è facile per me
la maggior parte del tempo
ed è così
la storia più corta: niente amore nè gloria
niente eroe nei suoi cieli

non posso levarti gli occhi da dosso
non posso levarti gli occhi da dosso

ed è così
proprio come tu hai detto che sarebbe stato
dimenticheremo entrambi la brezza
la maggior parte del tempo
ed è così
l'acqua più fredda, la figlia del vento
l'alunna di rifiuto
non posso levarti gli occhi da dosso
non posso levarti gli occhi da dosso

ti ho detto che ti disprezzo?
ti ho detto che voglio lasciarmi tutto alle spalle?
non posso smettere di pensarti
non posso smettere di pensarti

..fino a quando non troverò qualcun altro

lunedì 7 maggio 2007

La mia libertà





Dormirò a lungo e me lo farò pesare.
Al più lascerò qualcosa delle mie sere,
parole che da me s'aspettano o forse solo l'idea,
la conseguenza d'un amore,
perchè chi sua libertà stringe,
non la stringe,
ma si lascia da questa sognare.