mercoledì 2 maggio 2007

Le parole sono importanti









Forse c'è qualcosa che alcuni di noi non hanno mai perdonato ai cantautori: di aver stravolto, alla fine degli anni '50, il modo di intendere la canzone. Da "Volare" in poi, infatti, cantanti come Paoli, De Andrè, Tenco, Celentano hanno cambiato le regole della musica italiana. Non più solo canzonette fatte con rime amore-cuore e con un ritornello scaccia pensieri, facile da canticchiare e ricordare, ma vere e proprie storie letterarie, linguisticamente ben strutturate, in grado di diventare la colonna sonora dei cambiamenti della nostra società.

La cosiddetta tradizione della canzone d’autore è rimasta viva per decenni, fino a quando l'Italia era ancora un paese dove la cultura si indossava, si viveva attraverso le storie dei libri, si respirava con il profumo della fantasia. Oggi no o forse “un po’ tanto meno di prima”. Oggi si respira l'odore dei “fast food” musicali, di quelle canzoni mordi e fuggi che si perdono un minuto dopo averle ascoltate, che non hanno testo. Oggi diciamo e scriviamo che la canzone d’autore è un po’ in crisi, che per le nuove generazioni si è ridotta a musica pallosa, pesante, senza veri contatti con la realtà. Un genere anacronistico che non interessa più i ragazzi sotto i 25 anni. In parte questo è vero, ma in parte no. Comunque la pensiate, però, credo che sia innegabile dire che in questi anni è certamente cambiata la società, ancor prima che la canzone. I ragazzi che 30 anni fa consideravano addirittura offensivo il non impegno politico, ora non ci sono più, o sono ridotti a minoranza. Ora chi parla di politica è visto come un “nonno giurassico”, un secchione quasi da evitare e la canzone si è adeguata a questo andazzo.

Nanni Moretti in un suo film degli anni ’80 diceva che le parole sono importanti, chi parla male pensa male e vive male. Credo che purtroppo abbia fotografato in anticipo quello che poi è stato il destino del nostro modo di parlare. Ci siamo impoveriti, nel nostro parlare quotidiano usiamo sempre meno parole e spesso le usiamo anche male. Purtroppo anche la canzone ha finito per subire questo impoverimento lessicale. La canzone è un prodotto più facilmente fruibile rispetto ad un libro. Si ascolta molta più musica di quanta poesia si legge e quindi anche la canzone ha finito per adeguarsi alle leggi del mercato: la società vuole una canzone che rispecchi il parlare quotidiano altrimenti nessuno la ascolterebbe. Si parla male? Perché noi indubbiamente parliamo molto peggio di come parlavano i nostri nonni, magari anche se erano meno istruiti di noi. Si parla male e quindi è “giusto” che anche la canzone si adegui a questo parlare, perché altrimenti non avrebbe successo, parlerebbe una lingua incomprensibile ai più. Ecco perché credo che vada salutata con gioia una canzone come quella che Daniele Silvestri ha portato all’ultimo Festival di Sanremo. La paranza è l’esempio linguistico di chi cerca di porre un piccolo, forse insignificante freno al collasso della nostra lingua parlata. E’ un danno etico quanto estetico quello di una lingua impoverita, un danno a cui siamo stati costretti ad adeguarci, ma che non è detto che queste adeguamento debba durare per sempre. Noi siamo l’Italia che dice “assolutamente sì e assolutamente no” senza sapere, o forse dimenticandoci che in italiano queste espressioni non significano niente. Sono di moda e quindi le usiamo, proprio come usiamo i jeans o le scarpe del momento. Lo facciamo per appartenenza, per non sentirci diversi dagli altri. Siamo diventati una società in cui si reprime la bellezza della parola, proprio noi, noi italiani che da sempre abbiamo fatto della bellezza, dell’estetica del bello, una delle nostri principali risorse. Ben vengano, allora, i giochi linguistici di Silvestri, le sue rime azzardate, le sue allusioni pasoliniane. Ben venga quello che il critico Aldo Grasso sulle pagine del Corriere della sera ha definito come la capacità di nascondere la profondità in superficie. Una delle canzoni più impegnate degli ultimi anni appare anche come una delle più leggere, il ballo dell’estate, la canzoncina da canticchiare in doccia o di fronte allo specchio mentre ci si fa la barba. E’ un po’ quello che successe, quasi 40 anni fa, a Vengo anch’io, no tu no di Enzo Jannacci, canzone diventata famosa per il facile ritornello, ma che nascondeva chiari riferimenti pirandelliani.

Io spero che ci siano tante paranze, tanta gente che voglia diventare latitante, cioè far perdere la proprie tracce di fronte a questa società in cui non tutti riescono a sentirsi partecipi e con cui non tutti, per fortuna, vogliono sentirsi complici. La sciocchezza non deve essere “il nuovo che avanza”, non abituiamoci all’assurdo ed al brutto come senso comune. Esigiamo il bello anche da una canzone, anche da un film, da un giornale. Il crimine perfetto di questi ultimi anni è stato quello che impoverirci non solo economicamente, ma anche culturalmente e quindi, di conseguenza, moralmente. Solo così potremo essere uomini liberi anche in latitanza, anche in minoranza, come dice Daniele Silvestri. Credo che agli errori politici ed economici si possa sempre rimediare in tempi relativamente brevi, ma ai danni culturali no, ci vogliono più generazioni e questo è triste e come diceva Pasolini, purtroppo anche vero.

martedì 1 maggio 2007

Primo maggio a Bari










Sa cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste, cioé che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c'è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un'isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d'accordo con una minoranza...e quindi...

domenica 29 aprile 2007

Come una poesia di Carver

























- Ti prego, dimmi come ti sei ridotta così? -
- In due modi...a poco a poco e all'improvviso. -