
Tutto passa e il resto va...
...è un verso questo, una frase che mi riporta al concetto di perdita dell'innocenza
...mille parole di chiassosa bellezza...un gioco, una provocazione, una sfida, una comunicazione sì ellittica, ma più veloce e sempre in movimento. Laurea,Dottorato di ricerca, specializzazione e poi? E poi siamo pronti per giocare, per scriverci addosso, per non prenderci mai sul serio. Si parva licet!
Se gli avessero detto che avrebbe passato così il suo trentaduesimo compleanno Fabrizio De Andrè non ci avrebbe creduto, si sarebbe fatto una risata oppure si sarebbe spaventato.
Il modo migliore per avere una cosa e ritrovarsela fra le mani.
- "Cosa ho lasciato per ritrovarmi ora con questa cosa fra le mani? L’unica domanda giusta da farsi sarebbe questa. E’ l’idea di ricominciare daccapo quella che ti frulla in testa, è l’apripista a tutte le tue domande. E’ impossibile ricominciare. Questo dovremmo saperlo. Ogni cosa che fai è per sempre. Non hai scelta. Non puoi cambiare niente, non puoi rifare niente. Tutto è per sempre.
Credi veramente che sarei qui se non fosse così?
Pensi che quello che hai fatto ieri notte non abbia contato niente sulla giornata che hai avuto oggi?
Qualunque cosa tu abbia fatto, io non lo so perché non ti conosco, ci siam visti due ore fa per la prima volta, qualunque cosa, anche se sei rimasto a letto tutta la sera con il telecomando sulla pancia, qualunque cosa è entrata nella tua vita oggi.
Quello che è successo nel passato è l’unica cosa che conta nel presente. Cos’altro ci può essere?
La vita è fatta da quello che c’è stato, non da altro. Magari credi di potertene andare, ma non ci riesci mai. Ecco perché è meglio non farti troppe domande. Prenditi quello che ti sei ritrovato fra le mani è stai il più zitto possibile" -
Prende il suo montgomery ed esce dal locale...
Di certi posti guardo soltanto il mare
il mare scuro che non si scandaglia
il mare e la terra che prima o poi ci piglia
e lascio la strada agli altri, lascio l'andare
e agli altri un parlare che non mi assomiglia
ma sono già stato qui
in qualche altro incanto
sono già stato qui
mi riconosco il passo
il passo di chi è partito per non ritornare
e si guarda i piedi e la strada bianca
la strada e i piedi che tanto il resto manca
e dietro neanche un saluto da dimenticare
dietro soltanto il cielo agli occhi e basta
e sono già stato qui
forse in qualche altro incanto
sono già stato qui
e misuravo il passo
ch'è meglio non far rumore quando si arriva
forestieri al caso di un'altra sponda
stranieri al chiuso di un'altra sponda
dal mare che ti rovescia come una deriva
dal mare severo che si pulisce l'onda
e sono venuto qui
tornando sul mio passo
sono venuto qui
a ritrovar l'incanto
l'incanto in quegli occhi neri di sabbia e sale
occhi negati alla paura e al pianto
occhi dischiusi come per me soltanto
rifugio al delirio freddo dell'attraversare
occhi che ancora mi sento accanto
ci siamo perduti qui
rubati dall'incanto
ci siamo divisi qui
e non ritrovo il passo
di certi posti guardo soltanto il mare
il mare scuro che non si scandaglia
il mare e la terra che prima o poi ci piglia
e lascio la strada agli altri, lascio l'andare
e agli altri un parlare che non mi assomiglia
questo parlare che non mi assomiglia
“Di certi posti guardo soltanto il mare il mare scuro che non si scandaglia, il mare e la terra che prima o poi ci piglia e lascio la strada agli altri, lascio l'andare e agli altri un parlare che non mi assomiglia . Ma sono già stato qui, in qualche altro incanto, sono già stato qui, mi riconosco il passo.”
Partiamo di qui allora, dal passo e dall’incanto di un andare che si oppone al parlare degli altri, che spesso, per fortuna, non ci assomiglia. Partiamo da quella sensazione di vuoto, di paura per il futuro che ci coglie, ad esempio, alla domenica sera, all’inizio di un nuovo anno, di qualcosa di nuovo, come un nuovo lavoro, un nuovo esame, un nuovo ostacolo, anche un nuovo amore. Un senso di estraneità inquietante.
Un vuoto che penetra nei nostri sentimenti, confonde i pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca l’anima, intristisce le passioni rendendole già viste. Non è perdita dei valori e non è qualcosa che riguarda solo i giovani, come troppo spesso si è detto, un po’ per comodo, un po’ per evitare il problema, riducendolo a fenomeno generazionale.
Il problema riguarda la nostra società senza grandi distinzioni.
Il filosofo greco Platone distingueva tra “le cose di lassù e quelle di giù”, un dualismo dicotomico manicheo che oggi non può esistere più.
Su questa concezione, tra l’altro, è nato anche l'annuncio cristiano che parlava di una terra promessa e di una patria ultima, il paradiso, la salvezza eterna, il riferimento certo per eccellenza. La rivoluzione copernicana prima, e quella industriale poi, hanno sconvolto tutto questo. La terra che girava intorno al sole, che a sua volta era lanciato in una corsa senza meta, la tecnica non più solo come mezzo, ma come scopo, hanno dimostrato la relatività di ogni movimento e di ogni posizione nello spazio. Per conseguenza le antiche parole che indicavano certi riferimenti fra le cose adesso assumono solamente il valore di una relazione tra le stesse cose. Ecco perché l’uomo, qualsiasi uomo, anche il più spavaldo, oggi teme “il passo e l’incanto” dell’incerto.
Da qui il freddo uso della ragione e del calcolo per il raggiungimento, non di una meta, di un fine, ma di un risultato: l’arrivismo, il carrierismo, l’opportunismo.
E’ l’epoca delle passioni tristi questa, sono i “giorni pieni d’ombra, ma senza sera”, come diceva Ibsen.
Le sofferenze non sembrano avere una vera e propria origine psicologica, ma riflettono la tristezza diffusa che caratterizza la nostra società contemporanea, percorsa da un sentimento permanente di insicurezza e di precarietà. Il futuro non è più percepito come promessa, ma come minaccia. Da ciò la crisi: perché senza un’apertura al futuro l’uomo si sente in gabbia, ha paura anche del proprio passato e non vive più, sopravvive.
Ecco che si spegne ogni iniziativa, si dimenticano le energie vitali, si svuotano le speranze, dominano la demotivazione e l'impotenza. Crolla la visione ottimistica del mondo, la convinzione che la storia dell'umanità è una storia di progresso e non di salvezza.
“Ch'è meglio non far rumore quando si arriva, forestieri al caso di un'altra sponda, stranieri al chiuso di un'altra sponda dal mare che ti rovescia come una deriva dal mare severo che si pulisce l'onda.” Siam passati dalla generazione x alla generazione e basta. Gente con scarsa autoconsiderazione, con sensibilità fragile, introversa, indolente, immersa nell'inerzia per eccessiva esposizione agli influssi della televisione, preoccupata soltanto di non deludere le aspettative che chissà chi ha cucito su di noi. Una “generazione tutti”, perché non è più possibile distinguere i diciottenni dai trentenni o dai quarantenni, tutti accomunati dal basso livello intellettivo ed emotivo, rannicchiati in una disperata rassegnazione.
Gianmaria Testa, un cantautore poco conosciuto in Italia, ma, come spesso succede, famosissimo all’estero ha scritto questa canzone dall’andamento deandreiano per parlare appunto di sentimenti, di paure, di voglie, di aperture che rincorrono e si lasciano aspettare.
Qui Gianmaria Testa porta avanti una sua teoria. La via d’uscita può essere il passo, è l'andare che salva se stesso, cancellando la meta, inaugurando una visione dell’uomo radicalmente diversa da quella dischiusa dalla prospettiva della meta che cancella l'andare che fino ad ora ci siam visti sbattere in faccia
E’ quanto di più sbagliato ci sia dare schemi, imporre cose non esistono più. Servirebbe una nuova pedagogia, nuove regole morali, nuovi “comandamenti”. “Non esiste più Dio e Satana”, ha detto un filosofo tedesco contemporaneo, non può esistere più lo schema di progressione che ci ha portato fino a qui. L’uomo dice sì al mondo, e non ad una sua rappresentazione tranquillizzante. L’uomo deve ritrovare l’incanto del passo, la capacità disertare le prospettive finalistiche per abitare il mondo nella casualità della sua innocenza.
Ci si saluti allora, per questa settimana. Compie un anno questa rubrica settimanale, un anno fa iniziammo con “L’anno che verrà” di Lucio Dalla, un augurio per il 2007 appena iniziato. Quest’anno ci facciamo gli auguri con una speranza: che ci si riprenda il gusto dell’accelerazione della vita, la coralità giovanile, cioè la sensazione di appartenere ad una comunità attiva, di essere fra gli altri, prima ancora che nel mondo, che ci si riprenda con orgoglio lo stupore incantato del riconoscimento da cui nasce la propria identità “attraverso quel palpito che muove migliaia di cuori che fanno un unico cuore per intonare il canto di tutto l'amore del mondo”, come diceva il poeta francese Apollinaire; per riprenderci pure l'adesione alla pienezza della vita, che è la vita stessa di ognuno di noi.