sabato 4 agosto 2007

La paura di essere felici




















Facciamo che io ero felice?
L'ho detto tante volte, i bambini quando giocano giocano all'imperfetto, è la maniera che hanno, forse la prima, di esplorare il tempo, con tutte le possibilità che questo porta con sè.
Facciamo che io ero felice, allora. Proviamo ad immaginarlo, ma soprattutto proviamo ad esserlo veramente. Perchè non è facile, la felicità è difficile da raggiungere, è difficile da mantenere, ma è anche difficile da volere veramente. Lo so, ora quelli che si sentono un po' tristi magari staranno rabbrividendo di fronte a queste mie parole, ma se ci pensate bene, quanti di noi, hanno veramente voluto la felicità fino alla fine perseguendola in ogni dove e con ogni mezzo possibile? Secondo me pochi, perchè ci spaventa quel che non conosciamo...una "paura e voglia" di qualcosa che non conosciamo e che quindi non possiamo fronteggiare, da cui non possiamo difenderci. perchè ci si deve difendere anche dalla felicità, non solo dal dolore. E se hanno inventato metodi per difendersi dal dolore, dalla sofferenza, dovrebbero farlo anche per la felicità. Dobbiamo essere felici, basta con questi rimpianti, con le cose fatte a metà, con i passettini. Le cose passano, passano i momenti, quelle alchimie uniche che stupidamente pensiamo possano durare in eterno (perchè affrettarci, tanto questo ci sarà sempre...e invece sempre non c'è).
Un'altra occasione sprecata per paura di essere felici...

mercoledì 1 agosto 2007

A.A.A. cercasi...























Per le mie amiche lettrici (spero ci siano)...vorrei fare un ludico sondaggio, un sondaggio nazional popolare degno del miglior "novella 2000".

L'uomo ideale è?

il bravo ragazzo ("Cara, ci penso io" è il suo motto)
il divertente (bello o brutto non conta, purché faccia ridere)
il maledetto (rubacuori e tormentato)
l'intellettuale (profondo e... in via d'estinzione)
lo zingaro (un po' alternativo e un po' ribelle)
il ruspante (semplice e appassionato)
il belloccio fisicato (statuario, ma che se apre bocca è un disastro)
l'aristocratico rampollo (ricevimenti, salotti , tenute di famiglia...)

La parola












Di tutte le bellezze più belle perdute o almeno rovinate dai tempi – i tramonti sui canali fiamminghi, i colori di Van Gogh, l’arte della malinconia nel Rinascimento, la retorica dei Romani, la speranza dei Greci, L’Italia di Zoff, Gentile Cabrini, la pizza napoletana, le canzoni di De Andrè, l’epica di Omero, l’arte di leggere, quella di insegnare ai figli a scrivere, il savoir faire e il dolce far niente all’ora della siesta per noi meridionali – quella più compianta è l’arte della conversazione, quella, cioè, di passare ore ed ore a dialogare con amici e sconosciuti senza un vero perché, solo per il gusto di parlare, di conoscersi e riconoscersi in altri, nelle proprie parole e in quelle degli altri. Dove sono finiti quei leoni da salotto, i principi delle visite domenicali, quei conversatori sornioni che davano un ordine alle serate conversando? Per il filosofo francese Diderot la conversazione era uno sport vero e proprio, qualcosa che si faceva senza uno scopo preciso, pour le sport appunto, un servizio per la comunità quindi. Tutti noi, nella nostra vita, abbiamo conosciuto almeno un esemplare di quella specie in via d’estinzione che risponde ai tratti ed al nome di conversatore, che non va confuso con il chiacchierone, con il logorroico che annoia, che ci stordisce con il suo fare petulante e pesante. Il conversatore è altro. E’ un moschettiere, è uno che sa aspettare, che conosce l’arte dell’ascolto ancor prima di quella della parola, che porta buon umore o dubbi, che identifica la libertà di parlare con la volontà. La parola, pericolosa, ma al contempo necessaria, è la nostra arma contro l’abbrutimento, contro ogni forma di schiavitù, questo si legge nella Bibbia. La parola è quel “ centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente” di cui parlava Franco Battiato nell’omonima canzone dell’inizio degli anni ’80.

Se ci pensiamo bene, per quanto giusta possa essere un’idea, se mancano le parole, se non c’è chi la fa circolare, chi la illustra, non può esserci in essa una forza efficace e tutto ciò che se ne potrà dire è che si tratta di buone intenzioni, ma attuate male. Ciò perché, come ci hanno insegnato alla scuola elementare, lo stare insieme agli altri è anche e soprattutto parlare e perché il parlare non sta soltanto nella testa, nelle idee che abbiamo, ma nel cuore, nel sangue di ognuno di noi, nella nostra voglia di far gruppo, di migliorarci attraverso il confronto con gli altri.

In questa canzone Battiato fa una piccola carrellata di cose che non sopporta e di altre, invece, che lo colpiscono, che lo rendono perplesso. E’ in questo che nasce l’idea di una ricerca di qualcosa che gli dia stabilità, che lo rimetta al passo con il mondo, che non gli “faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente”. Come detto, quello che cerca Battiato è proprio la parola, ecco perché alterna frasi italiane, con altre inglesi, ecco perché finisce per dar risalto ad un elenco personale di cose che non gradisce di questa società. Lo fa perché tutto è parola.

Un’idea che non è passata attraverso la nostra voce, oltre che dal nostro cervello, non è un’idea, ed una società in cui non c’è più conversazione, perché non si ha più tempo e voglia di ascoltare, ma solo di dire la propria opinione, una società in cui il monologo ha preso il posto del dialogo, è una società triste, una società con troppe paure.

La conversazione è da sempre lo stampo della personalità di una società, ma non si ferma qui la questione, la conversazione è anche e soprattutto una grande risorsa per ognuno di noi. Ogni uomo dovrebbe essere consapevole di avere il diritto che il proprio parlare gli fornisca le risposte a quel che cerca, o perlomeno che lo aiuti a vivere meglio, che è poi lo scopo che ogni essere umano dovrebbe perseguire nella propria vita.

Parliamo poco e quando lo facciamo lo facciamo sempre di fretta, senza ragionare a lungo su quel che ci dicono. Ci manca un centro di gravità permanente, ci è venuto a mancare tempo, voglia e quella cultura della bellezza che sta nella parola. Certo è che sms, chat, televisione e i-pod non ci hanno affatto aiutato a socializzare, anzi, ci “costringono” volontariamente a scegliere la solitudine, il silenzio invece della conversazione con gli altri. Umberto Eco dice che la realtà la si può conoscere solo attraverso la parola, la parola è il centro di tutto, è il male e il bene, la verità e quello che si crede di essa. Chi parla, quasi con una sorta di intuito difficile da definire, arriva al fondo delle questioni, è quello che diceva Tolstoj, quello di Guerra e pace per intenderci. Chi parla, chi perde tempo in quest’arte antica come l’uomo, e che come l’uomo si è evoluto nelle varie epoche, si avvicina ad un genere di conoscenza che va oltre quella delle affermazioni generali, quella delle consuetudini e dei luoghi comuni, chi parla crea modelli di vita. Questa è la conversazione, l’arte di creare modelli di vita attraverso lo stare insieme, attraverso la scienza della parola dialogata.

Che tutto questo sia orgogliosamente inattuale, in tempi di ostentato, osceno effimero (di dispute interessantissime sul centrosinistra con o senza trattino, di paparazzi che scrivono libri e di libri che non si leggono mai) mi pare quindi pregio non da poco. Evviva la parola, allora, evviva tutti quelli che hanno coraggio, tempo e voglia di conversare con gli amici di fronte ad una birra o una pizza, con la propria famiglia, con degli sconosciuti in ascensore. Evviva quelli che sanno ancora qual è la differenza fra dover essere ed essere.

Scrivere tagliando...elogio del fiammifero












Perchè scrivo storie?
Perchè mi piacerebbe avere sempre il controllo di quello che accade e invece non è sempre possibile, mentre nei racconti è diverso, sei tu sempre che decidi e non c'è il caso, perchè il caso, la casualità sei solo tu. Chi scrive è una specie di fotografo, un disegnatore impressionista. Mai abbassare la guardia, mai distrarsi, perchè ci può essere, nascosto dietro un cespuglio, uno scacazza carte pronto a prendervi in prestito per le proprie storie.
Credo che quando si scrive bisogna smontare le vite, togliere tutto il superfluo. Forbici, taglienti e maneggevoli, ecco quello che ci vuole. Scrivere deve diventare l'elogio del fiammifero, una fiammella piccola quanto si vuole, ma capace lo stesso di bruciare e di illuminare.
Non mi interessa leggere che un personaggio è nato in un determinato posto, che aveva due genitori alti, bassi, grassi e magri. Chi se ne importa se è andato all'università o non è andato. Basta con le lacrime, con i sorrisi per gli amori che vanno e vengono. Anche il primo vero amore si può eliminare. Com'è stato il sapore del mio primo bacio? Non me lo ricordo e se ricordo qualcosa è di sicuro il prodotto della mia fantasia, e allora è meglio toglierlo, andare all'osso. Per me il futuro della poesia, della letteratura sta negli spazi vuoti. Nessuno ha troppo tempo da dedicare a se stesso figuriamoci agli altri. Via tutti i nomei degli amici di scuola, tanto chi se li ricorda più?! Via anche gli alberghi delle vacanze, i regali dei compleanni, via persino i dischi ascoltati.
Leggeri, questo è l'obiettivo, diventare leggeri. Mettere da parte l'album di famiglia, non è questo scrivere. scrivere è partire da un -Io-", che poi non sempre corrisponde all'io dell'autore, e ritornare a quell' -Io-, magari modificato, ma mai riempito.

martedì 31 luglio 2007

Chi ama a prima vista tradisce ad ogni sguardo...










O sono sposate o fedeli per autoconvinzione. E se non sono sposate, hanno appena rotto con l'uomo più bello del mondo, o hanno appena rotto con uno che era uno stronzo e che somigliava tutto a me. Ma in fase transitoria, dopo una relazione monogama, hanno bisogno di spazio; o sono stanche di spazio ma non si vogliono impegnare; o vogliono l'impegno ma temono di avvicinarsi; o si avvicinano e tu non li vuoi tra i piedi...

IL PROBLEMA NON E' AMARE UNO COME ME,
IL PROBLEMA E' AMARE SOLO UNO COME ME.

Da piccolo mi innamoravo di tutto...









Da piccolo inizi a giocare a pallone quasi senza volerlo, per istinto, per imitazione. E' forse il primo momento di socializzazione per un bambino. E infatti la domanda che mi farei non è "perchè ho iniziato a giocare a pallone, ma perchè ho continuato fino a quest'età?"

Io gioco a pallone perchè non sono stato in grado di tenermi stretto quella ragazza, perchè non ho mai detto a mio padre quanto l'amo e quanto lo detesto, perchè non ho sputato in faccia ad un professore che mi diceva di stare zitto durante le sue inutili lezioni altrimenti mi avrebbe interrogato, perchè ogni volta che vado in pizzeria danno il tavolo agli altri prima che a me, gioco ancora a pallone perchè credo che sia un modo facile per fare sport e tenermi allenato, perchè se giocano ancora quelli di 50 anni posso farlo anche io, perchè non voglio giocare nè a golf né a burraco, perchè odio la gente e voglio picchiarla.

domenica 29 luglio 2007

Oggi è il mio compleanno


















Oggi è il mio compleanno.
32 anni!
Non sono tanti, lo so, ma neanche poi pochi. Forse è l'età giusta per fare tante cose. certo non ho più quel "tutto da fare" che è l'oro dei diciottenni, ma mi piaccio di più di quando ho finito il liceo, mi sento più maturo, più sicuro di me, persino più bello e questo devo dire che mi fa piacere.
Certo, per alcuni aspetti, mi piacerebbe invertire i numeri ed avere 23 anni, non sarebbe male, ma ormai...accontentiamoci. Ho ricevuto dei regali: 150 euro di buoni per le Feltrinelli, una polo, una camicia di lino e un costume da bagno.
Io sono uno di quelli che ama i compleanni e che non vorrebbe che finissero mai. Mi hanno fatto gli auguri quasi tutti i miei amici, qualcuno l'ha dimenticato, ma non lo biasimo, io mi dimentico sempre quelli dei miei amici.
Evviva me!
Buon compleanno Vinci.