

...mille parole di chiassosa bellezza...un gioco, una provocazione, una sfida, una comunicazione sì ellittica, ma più veloce e sempre in movimento. Laurea,Dottorato di ricerca, specializzazione e poi? E poi siamo pronti per giocare, per scriverci addosso, per non prenderci mai sul serio. Si parva licet!
Un modo abbastanza giusto per amare la propria madre è quello di saperla guardare e nonostante questo continuare a dirle di sì.
Lei indossa un vestito rosso con dei bordini celesti.
Lei ha i capelli lunghi.
Lei ha gli occhi chiusi.
Lei è sposata da più di quindici anni.
Lei sta baciando un uomo che io non ho mai visto.
Lei è mia madre.
Finora non ho provato nessuna emozione nuova, è tutto come me l'ero immaginato.
Vedete, io vi sto avvisando: l'importante in questa storia sarà non scambiare l'anomalo con il falso, solo così non si correrà il rischio di rimanere tutti delusi: chi legge, chi scrive, chi immagina, chi ricorda, solo così si eviterà di finire per perdersi.
E allora, detto questo, devo dire che ancora oggi se penso a mia madre, spesso, me la raffiguro così: come una specie di burattino attaccato ad un sostegno, cascante, proprio come se fosse mezza addormentata, con le pieghe attorno alla bocca, anch'esse rivolte all'ingiù.E allora eccola lì, questa è la sua immagine: in piedi, saran state le quattro del pomeriggio, con la schiena contro la portiera di una macchina, con le mani nelle mani di un uomo che non conosco.
Le stranezze del nostro tempo ci hanno abituato a molto, e di più. Alla stupefacente scena mancava il prototipo del bambino prepotente. Pensate a quei bambini che arrivano al campetto con il loro bel pallone nuovo sotto il braccio e propongono di fare due squadre e una partita. Uno di quei bambini che indossano la maglia della squadra per cui tifano, con le scarpe più costose e che non sopporta che non gli si passi la palla spesso, uno di quelli che non passa la palla nemmeno sotto tortura, il classico individualista.
O, ancora peggio, una di quelle persone che non tollera di perdere e che prolunga la partita finché non riesce almeno a pareggiare.
Uno di quei bambini insomma con cui si sa sempre come finisce il pomeriggio: il bambino prepotente, rosso di rabbia, si riprende il pallone e nel silenzio generale lascia gli altri senza divertimento.
Nelle quinte della politica nazionale ci sono sempre più arroganti bambini "proprietario" del pallone. Vogliono decidere quando giocare, come giocare, chi giocare.
Che sia una partita di calcio da oratorio o una votazione o un processo, o meglio ancora un talk show televisivo o un confronto parlamentare o una legge dello Stato, non importa.
Ci sono quelli che decidono, quelli che decidono chi vince e chi perde. E ci sono quelli che vincono sempre, quelli che vincono anche perdendo e quelli che sono quelli che troveremo lì anche fra dieci anni, pronti a cambiare maglia, a passare dal tifo per il milan a quello per l’inter, proprio come si passa dal tè al caffè.
Sono quelle persone che non sanno rinunciare alla loro micidiale sincerità, all´energica autenticità della loro visione del mondo. Restare in piedi, anche se per far questo devono calpestare qualche amico. Non gliene importa nulla del gioco, dei giocatori, delle regole del gioco. Gli importa soltanto vincere, vincere, vincere, e peggio per chi non lo capisce.
“Lasciati guardare un po' più a fondo - finché si può - senti come tremo perchè sento che tutto finisce qui lasciati guardare un po' più a fondo - finché si può - un ultimo saluto al nostro tempo
e tutto finisce qui…” Subsonica, lasciati, una canzone di qualche anno fa, una canzone di malinconica rinuncia, una canzone da atmosfera, si sarebbe detto negli anni ottanta. Una canzone in cui “le parole si prosciugano e il fiato non ha via d’uscita”, una canzone che, forse, mette in luce “l’oscurità” di questi giorni, di questa nostra politica “cerchiobottista”, in cui non esistono più gli ideali, né da una parte né dall’altra, ma solo il potere, la gestione del potere, proprio come quei docenti universitari che smettono di fare ricerca, la vera vocazione del professore accademico, e diventano burocrati, gestori di potere.
Ecco che “i nostri” in questi giorni non stanno facendo nulla per nascondere loro stessi, per celare a la loro familiarità con l’affarismo e l’opacità dei comportamenti: una familiarità così radicata, da non farli più avvertire né l´illegalismo né l´opacità delle loro azioni. Perché parlo di illegalismo? Perché è un illegalismo ideologico, morale, di pensiero quello che più fa male in questo momento. Una forma di difesa di casta che la gente non riesce più a sopportare, perché c’è troppa distanza fra l’Italia dei palazzi e quella della strada. Non basta la televisione a far entrare la politica ogni giorno nelle case degli italiani. Ci sono due velocità, due mondi, due modi di vedere le cose: quello della politica e quello delle mille contraddizioni che nella politica dovrebbe trovare soluzioni e non alimenti, che è quello della vita di noi cittadini.
Non è tanto l’accusa di presunte illegalità quello che in questo momento fa male ai cittadini. E’ più la distanza, il senso di onnipotenza, di arroganza nei toni che porta il mondo politico spalle al muro di fronte agli occhi della gente.
Tutto è concesso, questo è il senso della casta. Tutto viene passato da padre in figlio, da padrino a figlioccio. Con questa legge elettorale i cittadini non possono in pratica neanche più votare un loro candidato. Ma si diventa onorevole in base ad una scelta di segreteria. Casta della casta.
E non serve il populismo di facciata, non è così che si governa, non è dando il contentino di immagine che si esercita il ruolo di amministratori della cosa pubblica. Si deve programmare e le programmazioni sono sempre lunghe. Si deve partire dalle idee, dalla cultura delle idee, puntare sui giovani, sui meriti, sui talenti, sulla creatività, sulla cultura del lavoro. Altrimenti? Altrimenti ci troveremo sempre di fronte
quel bambino che finisce per tornarsene a casa con il "suo" pallone perché lui non vuole rispettare le regole del gioco.