giovedì 13 dicembre 2007

parte due...racconto di natale





















Impotente, due lavori per guadagnare bene e non sentirsi da meno rispetto agli amici, una moglie comprensibile, un figlio bellissimo che vedevo troppo poco. E poi è natale e pensare di poter essere felice non vuol dire esserlo.
Che vergogna quando capisci che le tue parole assomigliano a quelle che avrebbe detto un attore in un dramma. L’attore le avrebbe usate per comunicare uno stato d’animo folle, le mie, invece, sembravano solo qualcosa di costruito, di artificioso.
Camminai lungo la strada. Avevo freddo, mi sentivo rattrappito. In macchina mi guardai allo specchietto retrovisore. Eppure quando era piccolo c’era anche chi diceva che la malattia non sempre assumesse una qualche forma fisica.
Sarebbe stato meglio farsi un taglio o bruciarsi la pancia. Almeno quelli sarebbero stati mali visibili, sarebbero stati inequivocabilmente presenti, lì sulla superficie del mio corpo, chiunque li avrebbe potuti vedere, tutti mi avrebbero compatito. Misi in moto e mi tornò questo pensiero.
Tornai a casa e fui letteralmente assalito dagli eventi.
L’infarto che questa volta aveva colpito mio padre non gli aveva lasciato più di un minuto di agonia. Meglio così, forse non ha neanche sofferto.
Ho sofferto io però. Ero seduto sul bordo del letto. Mi sentivo vivo e castigato, era una specie di choc chimico. Aveva ragione la puttana, solo con lei riuscivo ad essere me stesso. Godevo con lei, sognavo e non appena godevo la scacciavo come fosse una bestia, come se lei mi potesse ricordare il motivo per cui ero lì con lei. La puttana, mio padre morto mentre vedeva la televisione, mio figlio, erano tutti fatti molto concreti quella sera, ma ci sono altre cose concrete che non hanno nulla a che vedere con me. Era quello che non vedevo e continuai a non vederlo neanche quando mi ritrovai a casa di fronte a mio figlio che mi guardava. C’erano due vite in quel che vivevo: una vera ed una possibile.
- Quanto mi ami? – mi chiedeva continuamente mia moglie.
- Più di qualunque cosa. – rispondevo io.
Quelle strane creature, mia moglie, mio figlio, io.
- No, non fa per me l’amore. – disse alla puttana prima di entrare in macchina.
- Io ti invidio. –rispose la prostituta.
- Sì, buon per me. –
Poi cadde il silenzio . Era come se avessi avuto la sensazione di avere un’immagine chiara di una persona, un altro io che avrebbe saputo cambiare discorso, che avrebbe detto alla puttana di non essere interessato a quel che diceva.
Era un’abitudine e non potevo certo rovinarla così. Abitudine era una definizione perfetta. Abitudine suggeriva il lento ripetersi degli eventi e non contempo anche un vizio segreto.
Trovavo e trovo ancora ridicole altre parole: paura, vergogna e persino la parola amore.
Mio padre morto, la puttana che mi aveva detto di compatirmi, mio figlio che piangeva. Ho sempre pensato che comprendere le cose mi avrebbe caricato di nuovi obblighi, nuovi sensi di colpa che si sarebbero andati ad aggiungere all’eterno senso di inadeguatezza.
Perché di questo si trattava, di un dovere, di un senso di colpa.
Inspirai con gusto evidente. Nessuno sentiva il mio senso di segretezza.
Guardai mia madre che piangeva, anche mio figlio piangeva solo che lui non sapeva ancora perché.
- Tuo padre è morto. –
- Oddio mamma. – eppure per un istante non riuscii a comprendere fino in fondo come si stesse morendo.

racconto di natale...parte uno






















Inspirai con forza. La prima volta con una puttana fu alla vigilia di natale.
Una sera molto umida, proprio come questa.
- Tu dubiti ancora di me. Ma sei benissimo che io sono l’unica persona qui di cui ti puoi fidare. Io sono l’unico che riesce ancora a parlarti con franchezza, ricordalo. Cosa pensi che siano le donne? Puttane, solamente puttane interessate ai tuoi soldi, proprio come me. –
Respiravo appena. Mi aspettavano per la cena a casa dei nonni.
In sere come queste tutti credono di essere più buoni.
Era difficile trovare l’energia per salire in macchina e tornare a casa per la cena. Non avevo neanche la forza di volontà per tirarmi su la cerniera dei pantaloni.
L’umido cerchiava di fumo la luce dei lampioni. Il giorno andava affievolendosi fino al nero e lei era ancora seduta sulla sua poltrona da dove sentiva il peso della strada che le si depositava tutt’intorno. - Ci si può alzare ed uscire dalla propria vita. Il mondo qui fuori è grande. Mio figlio ha 4 anni e forse a quest’ora starà di fronte al televisore a vedere lo spettacolo delle marionette. Puoi avere una promozione sul lavoro, puoi licenziarti e con la liquidazione prendere un treno di notte e trovarsi con 10 mila euro in contanti al centro del deserto ad ascoltare i cani che abbaiano, senza che nessuno ti cerchi, senza che nessuno nel giro di decine di migliaia si chilometri quadrati sappia veramente come ti chiami. – Le cose non andavano bene. La storia che mi piacerebbe raccontare è che io non sono arrivato tardi, non avrei potuto lo stesso far niente per mio padre. Mio padre sarebbe morto lo stesso. Per qualche motivo me lo sentivo che mio padre sarebbe morto così. Nella nostra famiglia non è la prima volta che qualcuno muore d’infarto. Mio padre era un uomo estremamente fragile, ma senza cattiveria. Cercai di ricordarmi che non dovevo provare pena per me stesso. Pensai a mia madre a dovetti soffocare un singhiozzo. Lei prese quel singhiozzo smorzato come un segno dl mio dolore, invece che del mio futuro doloroso ed io dovetti soffocare un altro singhiozzo quando idi che i suoi occhi si riempivano di lacrime.
Era una puttana, cazzo solo un sporca puttana del cazzo, eppure con due parole mi aveva tagliato fuori da tutto, mi aveva sbattuto in faccia la mia vita...

continua


martedì 11 dicembre 2007

...a proposito di factory girl e dell'età barbarica...digressioni






















C'è chi dice che Omero si fosse accecato per rimanere nel sogno e poter cantare, poter scrivere versi, c'è chi dice che delle volte si cerca il dolore volontariamente per poter provare una sorta di piacere inconscio, c'è chi addirittura fa di tutto per incasinarsi la vita anche nei piccoli dettagli di tutti i giorni, chi preferisce sognare invece di vivere... e così alla fine del cerchio siam ritornati al caso di Omero.

Detto questo mi sembra possibile parlare di due film che ho visto in questi giorni: Factory girl e l'età barbarica. Due film che mi son piaciuti, due film molto molto diversi, ma avvicinati da un comune senso di autodistruzione dei personaggi principali.
Come intrusi si muovono, come intrusi prendon parte alle vite degli altri.


Quella "sottile tendenza all'autodistruzione" e il concetto di autoimmunità, a mio avviso può offrire una chiave di lettura ai due film molto attuale nella società contemporanea.
Non appena vi è vita, vi è autodecostruzione, auto-immunizzazione, vi è la-vita-la-morte; la vita è quindi contaminata irrimediabilmente con la morte. Questa è l'arte, questi sono i sogni.
Un concetto già ampiamente espresso da Freud, che lo chiama "pulsione di morte". Di per sé, la vita ha infatti la tendenza a ritornare allo stato originario della vita inorganica: Se noi accettiamo come verità, non passibile d'eccezioni, che ogni cosa che vive muore per cause interne - tornando allo stato inorganico -, allora dovremo anche dire che 'la meta di ogni vita è la morte', e, guardando ancora più indietro, che le cose inanimate preesistevano a quelle vive. Alle pulsioni sessuali (pulsioni di vita) quindi si contrappone tale tendenza autodistruttiva chiamata "pulsione di morte".

I due film analizzano, allora, la struttura di autodistruzione nella vita-non vita come un fenomeno inserito in una struttura di autodistruzione della vita quale momento e movimento specifico di un'autodistruzione più generale di ciò che è.