sabato 30 dicembre 2006

Dimmi chi erano i Beatles...






Oggi mentre bevevo un tè con ... alla Feltrinelli il discorso, non ricordo più neanche perché, è scivolato sulla presunta innovatività dei Beatles nel panorama musicale mondiale.
... sosteneva che i Beatles sono stati dei grandi sperimentatori, uno dei più importanti punti di svolta nella musica leggera, ed io non ero d'accordo, o forse dovrei dire "io giocavo a non essere d'accordo".
Cercherò di essere più chiaro:
Io sostenevo, arrampicandomi sugli specchi e facendo ricorso a tutte le mie riserve dialettiche, che i Beatles non siano stati altro che un prodotto mediatico e commerciale. I Beatles paradossalmente sono stati scoperti dal mercato e hanno fondato il mercato discografico europeo.
Nati da quel che hanno fatto nascere. Un complesso edipico che si rincorre e si morde la coda.
Cosa c'era in Inghilterra prima dei Beatles?
Praticamente nulla, terreno quasi vergine. Era in America che la musica "per giovani" aveva trovato le proprie radici. Quindi Blues, folk, e soprattutto rock e jazz.
Elvis e il fenomeno a lui correlato erano già mito quando i Beatles non avevano ancora inciso neanche il loro primo demo.
I quattro di Liverpool non dovettero soppiantare nessuna tradizione precedente.
Non c'era la melodia pucciniana di estazione romanza come c'era da noi in Italia. C'era terreno fertile. Erano gli anni della grande ripresa economica, le famiglie iniziavano, specialmente in Inghilterra e America a poter permettersi qualche spesa superflua in più, erano gli anni in cui anche e soprattutto a livello sociologico si inaugurava una lunga e importante stagione di studi e analisi sui giovani, sull'importanza che il loro "punto d'opinione" potesse avere nella società moderna. I Beatles si pongono su questa scia, i Beatles sono il primo fenomeno mediatico d'esportazione mondiale. I beatles sono il fenomeno musicale, ma non sono innovativi, non rompono con nessuna tradizione, la creano, ma questa è un'altra cosa.
Modugno è innovativo...i Beatles no.

venerdì 29 dicembre 2006

L'inizio della storia






Io sono una di quelle persone cui non succede mai niente, che fanno sempre la parte degli spettatori.
E anche quella notte ero uno spettatore, mentre succedeva questa storia.
Faceva freddo e piovigginava.
Nella sua stanza c'era il tepore del riscaldamento
Non ci avevo mai provato con lei. Forse intuivo un distacco divertito che mi aveva sempre messo a disagio.
Avrei potuto avvicinarmi e baciarla, ma lei era abbastanza furba da non permettermelo.
Bevvi un altro sorso di caffè e per un minuto fu tutto...

martedì 26 dicembre 2006

La morale di stella















Chi sei tu:
l'età del gioco
o la passione ancora poco osata?

Nulla accade.
La morale di stella è ciò che soccorre la mia solitudine.



...un sentimento conserva
i sentimenti passati...




Incontro






All'inizio mi sembrò solo una figura che avanzava verso di me in lontananza. Un attimo dopo era una donna. Poi diventò una ragazza carina, vestita con una gonna nera e delle scarpe basse. Poi una ragazza dolce e sensibile, i cui occhi profondi sembravano dire: " Ti ricordi di me?", il cui sorriso appena accennato diceva: "Mi sei mancato". E a quel punto ci eravamo raggiunti e stavamo quasi per oltrepassarci. I nostri sguardi, la nostra comune timidezza fece scoccare una scintilla a mezz'aria tra noi.

lunedì 25 dicembre 2006

Quello che ho ricevuto a Natale










Questi sono i regali che ho ricevuto la notte di Natale:

Una borsa da lavoro (mia madre ogni mattina mi rimprovera per il mio zaino da adolescente)
Un maglione verde di cashmere
Una giacca di velluto marrone di armani
25 libri (ho iniziato a leggere New York Blues di Woolrich)
Delle calze a righe orizzontali
La maglia da calcio della ROMA ( con il numero 2 Panucci)
Un cd con le canzoni della curva della ROMA

sabato 23 dicembre 2006

Déjà vu...sempre la solita cosa



Titolo Originale: DÉJÀ VU

Regia: Tony Scott

Interpreti: Denzel Washington, Jamese Caviezel, Val Kilmer, Adam Goldberg, Tichie Montgomery

Durata: h 2.08
Nazionalità: Usa 2006
Genere: Thriller


Il giallo è come una partita a scacchi: assassino, vittima e complice si muovono sempre secondo una logica ferrea come pedine su una scacchiera; poi arriva il detective che conosce le regole del gioco e riesce immancabilmente ad acciuffare il colpevole. E a far trionfare la giustizia fra la soddisfazione generale. Ma questa è una bella favola moralmente necessaria, una delle tante menzogne ormai consacrate.
E' quello che sembra trasparire dal nuovo film di Tony Scott, è quello che la trama del film lascia credere almeno fino a cinque minuti dalla fine e invece non è così. Invece ci si ritrova di fronte al solito film pieno di possibilità tecnologiche ben sfruttate e carente in sceneggiatura. La realtà, governata dal caso e non da leggi prefissate, è imprevedibile e incalcolabile e «un fatto non può tornare come torna un conto», ci sarebbe da aggiungere alla fine del film per definire e supportare il classico giallo come una finzione piena di eroi e con un immancabile happy end.

giovedì 21 dicembre 2006

Tra la vita e la morte...c'è il diritto di scegliere della propria sorte






La vita così come la morte è una libera scelta, deve esserlo, almeno per chi non crede in Dio.
Per il Cristiano Cattolico la vita è un dono di Dio. Dio ce l'ha data e solo Dio può togliercela. L'uomo non può e non deve decidere sulla propria vita, deve affiarsi al volere di Dio.
Questo per il Cristiano Cattolico, ma per chi non lo è? Per quelli che non credono?
L'Italia, almeno in teoria, è un paese, una Repubblica laica, un paese in cui le leggi non dovrebbero essere condizionate da un sentire spirituale, ma da un assoluto raziocinio legislativo.
Non capisco perché allora un laico che non crede alla vita come dono di Dio non possa scegliere liberamente e senza problemi della propria vita così come della propria morte.
Se io, ateo agnostico, non credo in Dio, io, ateo agnostico, posso scegliere e decidere della mia vita e della mia morte.
Il primo fu Prometeo e fu subito visto come un eroe, ricordiamocelo.

lunedì 18 dicembre 2006

L'amore egoista



L'amore egoista


Lui è entrato in questa stanza tanti anni fa ormai, e qui dentro non c'era ancora niente di suo. C'erano le mie cose e cose di altri, tutte in un perfetto disordine o ordine, che alcuni non comprendono, ma che era il mio ordine. C'era ancora il letto vicino alla parete, il tavolo pieno di tanti piccoli oggettini, il muro pieno di Post-it gialli dai quali il tempo aveva già succhiato l'inchiostro delle penne e i messaggi che avevo voluto ricordare. Il telefono era un altro, un vecchio cordless grigio e stanco che aveva conosciuto le mie telefonate, le mie ansie, le mie paure meglio di chiunque altro. C'erano cose che andavano e venivano e molte di loro non le ricordo più. C'erano persino i miei giocattoli, da qualche parte, tutte le cose che avevo amato da ragazzina e che forse già allora non sentivo più mie. C'erano le foto delle mie estati sulle mensole, i poster di sempre appesi alle pareti. L'armadio della stanza non l'avevamo ancora cambiato e in giro c'erano molti meno giornali. I libri, invece, erano già qui, forse diversi, ma ci sono sempre stati, fin da quando ero piccolissima. I libri in questa casa si riproducono molto velocemente. Li leggo, li metto da parte e li ritrovo dappertutto. E' bello così.

C'era musica che non avrei più ascoltato ed altra che avrebbe avuto di lì a poco un significato diverso, ma lui non aveva ancora visto niente, non aveva ancora toccato niente, usato niente. Non c'erano le sue dita sulle mie cose, il suo gusto nel mio armadio, le sue idee nei cassetti della mia bancheria, il suo passato nella scelta dei miei libri, il suo sorriso nei miei occhi, nella mia testa, i suoi anni nel mio corpo. Io invece i suoi occhi li conoscevo già, era quello che aspettavo, ma ancora non lo sapevo e se anche l'avessi saputo non avrei potuto ricordarlo. Ancora non li avevo mai guardati, ma li conoscevo già.

-Quando inizio ad amare una persona non so ancora niente di lei che non mi son inventato io.- L'ho letto nei suoi appunti, nelle sue poesie. La storia cresce fra le sue dita, il mondo lo costruisce pian piano.

Più tardi mi avrebbe confessato di aver provato fin dall'inizio una forte attrazione per me, quasi una fissazione. Avendolo conosciuto bene ora non mi stupisco più di questo, ma io comunque non credo che sarebbe mai iniziato niente, che lui avrebbe preso la cosa sul serio e sarebbe riuscito ad andare a fondo, se qualcosa solo di suo, se una sua esigenza di allora non gli avesse dato il via.

Le cose vanno così: tu cammini per le strade, dal luogo da dove sei partita fino a dove vuoi arrivare e pensi alla tua vita o meglio a niente. Pensi a come non soffrire in una storia che diventa sempre più instabile, insicura, pensi che vuoi trovare il modo di uscirne o almeno di non viverla più così. E cammini, cammini, cammini. Magari hai sonno, sei stanca. La sera prima hai fatto tardi e vedi che la gente intorno a te ti osserva più o meno direttamente. entri in un negozio, in una stanza, in ufficio, nell'aula universitaria che frequenti e non fai caso agli sguardi, ma ti assicuro che gli sguardi ci sono. Così capita che, senza volerlo, tu finisca nei discorsi di persone che non conosci o che pensi di conoscere solo di vista. Qualcuno parla di te, qualcuno si interessa a te. E' quasi un gioco. Niente è ancora cambiato nè in te nè intorno a te, eppure senza neanche saperlo sei diventata l'idea fissa di qualcuno magari solo perché questo sconosciuto ti ha visto bella o perché in quel momento aveva bisogno di vederti così.

Quando lui capisce di essere attratto da una persona ancora non sa niente di lei e la storia si fa da sola anche quando lui pensa di poterla comandare. E' solo qualcosa di cui aveva bisogno.

Del resto per quel che ne sapevo lui era una figura a me completamente lontana, forse mi incuriosiva, mi faceva compagnia quando si avvicinava per parlarmi, ma niente di più. Qualsiasi magia avesse potuto portarsi con sé, sarebbe bastato un solo piccolo errore per farlo uscire per sempre dalla mia vita. E invece più andava avanti e più a me la cosa piaceva. Mi rendeva complice senza farmi capire complice di cosa. Ma tanto a me in quel momento non interessava capire niente. Mi andava bene così, mi piaceva lasciarmi trascinare. Ma...ma non voglio parlare di come riuscì ad entrare in questa stanza, stanza che comunque per i primi anni non vide mai, non voglio parlare di come conobbe le persone che all'epoca consideravo i miei amici, non mi interessa ricordare il nostro primo bacio. Fu bello capire di essere desiderata da lui. In alcuni momenti riuscì persino a farmi convicere che io e lui fossimo molto più che uguali. Quando le altre ragazzine pensavano già di essere carine, attraenti, quando pensavano solo a divertirsi, io non mi ero ancora fatta un concetto chiaro di come dovesse essere la mia vita, le mie giornate, di come vivere la mia crescita continua. Certo, non ho mai pensato di trascurarmi, ci tenevo ad apparire se non proprio bella almeno un po' carina. Incrociando lo sguardo di un ragazzo che mi piaceva sorridevo distrattamente, con grande moderazione, per non fargli vedere sin da subito il rossore della mia timidezza.

Forse sono stata pazza, ma c'è stato anche un momento, anche se ormai quando ci penso non capisco più perché, a partire dal quale ho iniziato a pensare che era solo grazie a lui se ero diventata così.

Ed io ero bella, ero veramente bella!

Ora mi guardo intorno e capisco che qui dentro alcune cose sono proprio sue, penso che se lui non ci fosse stato ce ne sarebbero di sicuro altre al loro posto. Certe cose le ha trascinate lui qui ed ora posso dire che stanno anche bene con quelle che c'erano da prima, si sono completate in un certo senso, ed ora è impensabile poterle separare. Prese singolarmente non avrebbero più senso.

Certe cose le abbiamo consumate insieme: libri, canzoni, e tutti i fogliettini su cui mi scriveva le sue piccole poesie. Sono tutte cose che forse non riguarderò più, ma che so che ci sono, e so che mi guardano ogni volta che mi tornano in mente. Certe cose, poi, le ha usate solo lui e nessun altro dopo di lui. Le ho lasciate lì ed a nessuno interessano più, neanche a me.

Altre, invece, le ha portate via con sé e credo che continuino a vivere con lui, a guardarlo crescere ancora e sbagliare sempre con meno innocenza, punirsi ed impazzire davanti a qualcosa di perfetto e piangere per ogni cosa finita che lui non sa e non vuole accettare. Altre cose, invece, sono dove vorrei essere io, in certi momenti, dove, invece, ho scelto di non voler essere più.

Ed io i suoi occhi non li ho certo visti in quel posto così affolato di gente simile a noi, no. Quel giorno non li avevo neppure guardati. Visti e dimenticati, proprio come tutte quelle cose che mi disse piano piano e che prima di dirle a me le aveva dette a chissà quante altre persone. I suoi occhi erano quello che non avevo mai avuto, erano le emozioni che avevo paura di non poter provare, erano -Ecco, è arrivato finalmente il tuo momento!-.

Quegli occhi dimenticati e di nuovo amati per dimenticarli spesso, come le cose che si possiedono e si teme di perdere per non volerne fare a meno. Non so perché, non ho mai capito bene il perché io mi sia sempre innamorata di persone così. Forse è stato solo un modo per rimpiangere dopo, a storia finita, a storia finita male, una vita normale, per rimpiangere qualcosa che mi mancava o che pensavo che mi mancasse. Ogni volta mi davo una seconda possibilità ed ogni volta soffrivo e mi legavo di più a qualcuno o a qualcosa. Un mondo mio, a immagine di quello reale.

Ma adesso è diverso. Le cose richiedono un legame che in passato, non solo non son mai stata in grado di dare, ma neanche di pensare. Ecco perché dopo di lui son tornata sempre meno a casa. Non sarei più stata in grado di dedicare tempo alle cose che mi avevano conosciuta. Ho sempre pensato che sarei stata capace in un modo o nell'altro di voltare pagina. Sono poche, invece, le persone così. Tutti noi abbiamo tante vite una dentro l'altra e tutti noi ci leghiamo sempre a cose diverse. Io però ora non lo so a cosa sono legata veramente. Certe volte mi sembra di essere diventata più cinica, capita quando soffri così, quando provi ad uscire da una grande paura. Per fortuna molte cose io le dimentico senza accorgermene. Io non so più bene cosa provo, spesso non lo voglio neanche sapere, non voglio più confondere i miei sentimenti con le parole che usano tutti, con le parole che usava lui con me. Forse in amore ci si dovrebbe accontentare di maggiore silenzio. Questo lui non l'ha mai capito. Spesso le parole diventano solo una violenza. La verità di queste parole non esiste, non esiste questo amore, esiste la mia verità, la verità di quello che proviamo di volta in volta e di volta in volta allora cambia il concetto di verità, cambia il concetto di amore, del mio amore, proprio come cambiava il suo modo di amare me.

Mi scriveva, usava tutti i pretesti per farlo. All'inizio deve solo sedurre. Sedurmi ed andare avanti così. Poi la storia si snoda più o meno da sola e un bacio non basta più quando è costato tanti mesi di attenzioni, parole, tanto tempo passato a lasciarsi innamorare. Perché è lì che si deve arrivare. Lui deve farmi innamorare anche a costo di innamorarsi anche lui di me come di altre, anche a costo di credere di poterne uscire quando lo vuole e capire poi di non essere in grado di farlo più.

L'ho dovuto aiutare io, alla fine, ed è stato difficile, è stato brutto farlo. Ci siamo persi.

Alla fine sono diventata veramente un po' come lui. Alla fine è andata così, è finita senza che ci si potesse fermare a guardare.

Eppure non l'avremmo detto io e la mia stanza, io e tutte queste cose che ancora sono qui, che un giorno sarebbe finita, o per lo meno, che sarebbe finita così. Mi ha un po' deluso, incuriosito, affascinato, delle volte mi son ritrovata qui, in questa stanza a guardare nel vuoto proprio come facevo da ragazzina, a cercare il modo per non perderlo, ma alla fine non sono riuscita a vedere nessuna soluzione, nessuna apertura, nessuna strada veramente comune. Non che lui non fosse fatto per me, no, questo no. Anche se l'ho pensato, ormai non lo penso più. Lui era perfetto. Lui si sarebbe spento comunque, proprio come diceva lui e alla fine, a furia di sentirmelo ripetere, ho finito per spaventarmi, ho iniziato a crederci anch'io.

Delle volte lo vedo e credo che lui non ha superato niente, che l'ho sempre creduto più forte e maturo di quanto in realtà non fosse, che si lascia sempre tutto in tasca, tutte le cose, sia quelle brutte che quelle belle, le cose di una vita frenetica che lui ha sempre voluto a portata di mano. Il suo più grande difetto è che è un incompleto. Proprio come il suo amore per me.

Ormai non riesco più nè ad odiarlo nè ad amarlo, mi fa solo tanta tenerezza e vorrei stringerlo forte a me, fino a fondermi con lui, fino a sentire quel che ancora si prova insieme.

Poi penso a questa stanza, al suo amore, poi ripenso alle sue tasche ed a tutto quello che io ci ho lasciato, e...e anche se non so bene cosa sia, mi viene da sorridere mentre piango.

Io egoista, io l'ho amato così. Io...lui.

domenica 17 dicembre 2006

Il concetto di libertà
















Libertà è l'unico sostantivo che non può avere aggettivi.
Mi si potrà dire che esiste la "libertà vigilata", "libertà pericolosa", "strana libertà"...
...credo che sia giusto, però, fare qualche passo indietro e soffermarci sulla natura di libertà.
Tanto per cominciare credo che sia impossibile mettere dei paletti alla libertà.
Questo non dovrebbe essere ammesso a meno di non alterare completamente il senso di questa parola. La libertà non è un insieme di opinioni, è un'opinione sola e chi vuole conculcarla vuole conculcare il diritto di esprimere e vivere questa unica opinione.
La libertà dentro i paletti è libertà "permessa" e quindi non è libertà.
Mi chiedo allora se è questo quello che dobbiamo abituarci a vivere.
E' questo quello che vogliamo?
La completa rotondità della parola "libertà" celebra la vittoria della vita: della vita sociale e della vita di ognuno di noi. Vita sociale e vita corporea, nel termine libertà, sono una cosa sola.
Detti quelli che sono i diritti della satira, chiediamoci ora quali siamo i suoi doveri.
Il primo dovere della libertà è quello di non scendere mai a compromessi, quello di essere sempre coerente.
Il secondo è quello di doversi mettere in discussione non mirando mai al ribasso.
E' per questo che si deve continuare a parlare di libertà, anche se non è facile capire da dove proviene e attraverso quali canali si trasmette.
Si deve parlare di libertà per renderci meno passivi e conformisti?
Non lo so, forse, o forse il problema non è questo.
Il problema è che bisognerebbe scommettere sul presupposto che in qualche modo ci sia data sempre la possibilità di riconoscerla.
Il difficile, il problema è questo: riconoscerla.
Da qui deriva il delirio sull'infinita possibilità di manipolazione di questo termine.
Aggettivare la libertà è manipolarla, è trasformare la condizione stessa di libertà in impossibilità di persistenza.
In passato, purtroppo, è quasi sempre stato così.
Il problema, allora, è che troppo spesso si è cercato la realizzazione dell'uomo prescindendo dalla libertà.
Si apre, allora, un problema, un aut aut inevitabile.
La domanda: "Che fare?" si trasforma in un più complicato "Cosa non fare?".
Per concludere dico che "l'uomo ha inventato la felicità", e su questo per un laico come me non ci sono dubbi, non credo, però, che la stessa cosa si possa dire della libertà e qui, questa volta, la religione non c'entra.

Ho l'inquieta aria amata di chi sogna sapendo di essere addormentato






Perché l'amore è qui e tace
e niente è più simile alla mia vita.
Passione o rimpianto
se dell'amore sogno l'avere
e non l'inutile paradigma del suo essere?

E' giusto che finisca






- Dimmi la verità: c'è qualcos'altro che non mi hai detto? - , le chiesi io.
- Sei tu che vuoi sentirti dire qualcos'altro, qualcosa ti faccia scaricare su di me le colpe. -

Dopo, prima che le chiudessi il telefono in faccia lei mi ha detto:

- Sapevo che sarebbe finita così, non riuscivo a non pensarci. -

Dal rubinetto del bagno usciva l'acqua corrente più fredda che io abbia mai sentito. Noi due passavamo quasi tutte le sere sul divano a leggere e ascoltare musica.
Una sera mi ha chiamato cuore mio. Abbiamo guardato Harry ti presento Sally in dvd, poi ho mangiato un panino con il salame e una mela rossa.
Avevo voglia di chiamare mio fratello al telefono, invece ho fatto finta di non pensarci.
La nostra situazione rappresenta un fallimento in almeno due dei nostri ruoli più importanti: l'amante e l'amato.
Però lei mi ha detto: - Io ti amo, tu sei la mia vita, ti amo . -
- Mi ami, ma mi stai lasciando. -

- E' il momento di imparare a guidare. - ho detto io, e dalla risposta che mi ha dato ho capito che stava sorridendo.
- Mi sa di sì. -
Fra di noi, imparare a guidare voleva dire smettere di chiedere agli altri di accompagnarci, di proteggerci in un qualche modo.

Finalmente ero a letto.
Potevo dormire steso sulla pancia come non facevo più da anni. Potevo dormire senza cuscino e senza pensieri su cui rimuginare.
Volevo quello che volevo.
Prima di addormentarmi avevo letto dei racconti con un narratore in prima persona che avrei potuto essere io.

- Non ti ho mai detto bugie. - Le scrissi questo prima che mi si spezzasse la punta della matita.
- Aspetta Vincenzo, aspetta. - Mi disse. - Possono cambiare un sacco di cose per te. Magari adesso ti sembra tutto nero, ma dovranno per forza cambiare, non è vero?- continuò lei - Dimmi di sì, ti prego, dimmi che è vero. -

Conversazione






- Pensi che a 18 anni eri più felice di adesso? -
- Avevo più certezze a 18 anni. -
- Quali certezze? -
- La certezza che ce l'avrei fatta. -
- Ma tu ce la farai. -
- Ma non a fare quello che voglio. -
- Cos'è che vuoi fare? -
- ...non lo so. -
- Io penso solo che a 18 anni avevi la certezza che avresti capito quello che volevi fare, tutto qui.-
- Già, forse è vero, ma non mi sembra poco. -

Non ho l'ideologia del successo, sono cresciuto in un'epoca in cui alla ricchezza non si arriva più attraverso la cultura. Non esiste più chi decide di fare il medico per vocazione e non per guadagno o presunto prestigio sociale.
La storia, invece, non mi ha fornito di grinta a scopo di lucro. So di possedere tuttavia tutti gli strumenti necessari per riconoscere i tratti di un insuccesso.

- Inizio a pensare in senso relativo, o sbaglio? -

Minima 11, massima 18. Leggero vento da nord, negozi pieni di addobbi di plastica rossa.
I colori natalizi sono disordinati ma ripetitivi. Proprio come le mie sensazioni questa sera.
Mi pare di non trattenere immagini colori, perché non credo di averne di stabili.
Non ci sono ricordi senza persone che li attraversano. Non ho un' immagine della cena di questa sera, delle persone che avevo attorno, di quello che ci siam detti.

Leggete con me:
Il Bari che vince a Lecce, un pessimo sushi troppo costoso, i jeans larghi, Totti, il masochismo, sms senza risposta, l' attesa di una mail, Damien Rice, lo snobismo, la stanza divisa con mio fratello, MicroMega, l'I-pod, Humphrey Bogart, non faccio l'amore da una settimana, Manhattan, la coca cola, Tours, la pizza con la scamorza affumicata e lo speck senza pomodoro e doppia massa, De Andrè, il numero 6, la forza delle illusioni, i libri che vorrei comprarmi, Charlize Terhon, la clio color polvere, l' anarchia, le clarks con le calze gallo, il ridicolo e la vergogna, Rayanair, la paura di essere felici.
Tutte queste cose non son prive di significato per me. Ne conosco almeno un riferimento.
Tutte queste cose sono sullo stesso piano, mancano di differenza.

I vecchi son come i bambini con l' aggiunta che sono invidiosi.
Credo che dovrei essere meno pauroso. Mi sentirei meno defraudato, mi sentirei più libero.

sabato 16 dicembre 2006


LETTERATURA E MUSICA...IL CASO CHISCIOTTE


Che cos'è la poesia?
Penso che sia una domanda talmente ingenua da risultare abissale. E' una domanda, una di quelle domande che forse, dico forse, almeno una volta nella vita ognuno di noi si è ritrovato a fare accostandosi ad un qualsiasi testo poetico.
Io credo che la poesia, per sua naturale vocazione, sia l'anarchia della coscienza allo stato puro, ciò che prova a conciliare lo stato d'ordine della ragione con il caos della passione, l'immagine del reale con l'inimmaginabile dell'emozione.
Purtroppo da moltissimo tempo la poesia italiana si è come arenata. E' come se noi Italiani avessimo scelto un bordo statico e poco coraggioso da cui assistere alla fine della nostra tradizione poetica. Quanti di noi, infatti, leggono, comprano testi poetici, quanti di noi hanno letto poesia al di fuori degli obblighi scolastici? Credo pochi. La poesia italiana poi, non si è certo aiutata scegliendo la norma anziché la rottura dell'ordine, la lingua solida anziché l'infinitudine della sperimentazione linguistica e tematica.
Tutta la poesia italiana, infatti, versa in uno stato se non proprio di decadenza quanto meno di rigidità, di stasi, di attesa. Ecco allora che il connubio con la musica, con la cosiddetta canzone d'autore corre in soccorso della produzione lirica italiana. Poesia e non poesia era stato uno dei crucci intellettuali di Benedetto Croce, assioma che si ripropone in questi ultimi anni nel dibattito tutto italiano sulla canzone e sulla possibilità che questa sia equiparata alla poesia. Che cos'è allora la poesia vista attraverso l'occhio, attraverso la possibilità del connubio con la canzone d'autore? Poesia e canzone è un ritorno alle origini, poesia è Cesare perduto nella pioggia che aspetta da 3 ore il suo amore ballerina, della canzone Alice di Francesco De Gregori, è Cesare che rimane lì a bagnarsi ancora un po', poesia è quel ancora un po', perché è grazie a quel ancora un po' che il cantautore, il poeta, riesce a darci ( grazie solo a queste due piccole parole ) il senso, la ragione, il sentimento, la drammaticità ostinata e cieca della passione di Cesare, Cesare Pavese in questo caso. Che vuol dire quel ancora un po'? E' l'Io poetico, è lo specchio di un amore che rischia con il proprio star male, con il proprio dolore, è andare un po' più in là con la propria dignità, è farsi affogare nel fango, nella merda, come lo stesso Cesare Pavese ebbe a dire, è continuare ad andare in direzione ostinata e contraria, è far fatica a capire se si tratta di poesia o di caos, di amore o 'semplice' follia.
La poesia italiana contemporanea, ma forse dovrei dire la letteratura italiana tout court, ha perso il gusto per la sperimentazione, per il nuovo, ha indubbiamente perso il suo pubblico, ha smarrito quella gioventù che per secoli (fino all'oscurantismo controriformistico del XVI secolo) era stata la base dei suoi fruitori. E allora noi tutti a chiederci: -ma i giovani non leggono più? Non leggono più la poesia?- No, non la leggono, la ascoltano, però. I giovani sono i maggiori fruitori del prodotto letterario musicale.
-E da quando in qua la poesia si può anche ascoltare?- Da sempre. La poesia è sempre stata ascoltata, anzi la poesia nasce con un accompagnamento musicale, di cetra per la precisione. Il cerchio allora pare essersi chiuso. Da Omero si passa a De Andrè, da Ariosto a Vecchioni a Paolo Conte. Il salto non è certo breve e privo di difficoltà, bisogna ammetterlo, ma quel che sembra essere importante sapere, o meglio ricordare, è che da sempre la poesia ha cercato nella musica, dai provenzali, al madrigale cinquecentesco, fino al melodramma ed ai libretti operistici dell'Ottocento, la sua fonte d'ispirazione, di "sfogo creativo" e comunicativo.
Detto questo e ricordato come è comunque riduttivo vedere la canzone esclusivamente come strumento comunicativo ad uso e consumo di quella fetta di pubblico prevalentemente giovane (quelli che in prevalenza comprano i dischi), le cui attese sembrano soddisfarsi con tutto ciò che parla di loro, dei loro problemi o che se non altro si proponga come surrogato di quei valori culturali. Non appare un azzardo, quindi, affermare che o la letteratura, la poesia, si adegua a queste nuove regole estetico-commerciali o perde definitivamente quel ruolo socializzante che per secoli ha avuto.
Il rapporto fra musica e letteratura da sempre nasce all'insegna della confusione e dell'incertezza. Come non ricordare a questo proposito gli sviluppi musico-letterari nelle corti umanistico-rinascimentali alla fine del '400 e per tutto il corso del XVI secolo, o l'esperienza dei melodrammi metastasiani di epoca successiva. Ma perché oggi la musica si serve della poesia, della letteratura tout court? Semplicemente perché la letteratura esprime casi umani, un universo ricco e composito in cui ognuno di noi ci si può rivedere, in cui ognuno di noi può trovare la sua storia, il suo sogno, o semplicemente quello che è stato il suo amore, proprio quello che fa la canzone.
Chi è allora Don Chisciotte se non un vero e proprio sopravvissuto ad ogni epoca? Sinceramente credo che pochi personaggi, più o meno politici ed impegnati abbiano la stessa efficacia letteraria e musicale di questo. Negli ultimi anni, infatti, tre cantanti italiani hanno raccontato in musica le gesta del cavaliere della Mancha: Fossati, Vecchioni e Guccini. In modi differenti hanno colto nel personaggio di Cervantes elementi delle volte contrastanti, in grado però di dar vita ad un personaggio poliedrico, ricco di mille sfaccettature e dalla moderna problematicità. Tre affreschi che insieme danno vita ad un personaggio completo, assai vicino a quello letterario.
E se l'esperienza in un testo narrativo sta nell'intreccio attraverso il quale l'autore fa emergere la forma del suo pensiero, in un testo musicale è spesso l'Io narrante il protagonista della vicenda, difficilmente, infatti, si ha la presenza di un narratore esterno. La poesia, così come la canzone non può essere velleitaria, non deve esserlo, non deve essere né decorazione né consolazione, o peggio ancora una copertura della realtà. Deve comunicare attraverso la rapidità, l'essenzialità del verso, proprio come la poesia, la poesia moderna.
Pirandello diceva che si è aperto un buco nel cielo di carta. Ebbene il buco nel cielo di carta è partire da zero, è l'umorismo, è la fine di qualsiasi punto di riferimento, per chi scrive come per chi legge. La canzone inizia a racconto concluso. E' quasi un ricordo, le vicende non possono cambiare, tutto è già scritto, è tutto qui. E' un po' come saper cosa dire, come saper dove mettere le mani. E' parlare di Don Chisciotte, di Garibaldi, di Dino Campana attraverso la vita già conclusa di questi personaggi.
Scrivere è questo. E' esprimere un messaggio, è comunicare. Leggere, ascoltare, invece, vuol dire produrre senso, vuol dire dare un senso, un senso personale e soggettivo a questo messaggio che altrimenti rimarrebbe solo una sterile gestualità dell'autore. Io penso che sia molto più facile scrivere qualcosa che leggere e ascoltarla. Quando si scrive si esprime solo la propria personalità, nel leggere, nell'interpretare, invece, ci si scontra-incontra con la sopraffazione dell'altro, con il pensiero di chi scrive. Scrivere una poesia è più facile che leggerla, che capirla. E allora mi chiedo se veramente leggere sia come dice un critico contemporaneo "aumentare le proprie esperienze con quelle della vita di altri". E allora cos'è la poesia, cosa vuol dire leggere una poesia al giorno d'oggi, cosa vuol dire ascoltare una canzone d'autore? E' leggere quel che altri hanno scritto di te prima di te. E' il ciclo umano che si ripete. Leggere è desiderare se stessi in un'altra ottica, non per forza, però, nell'ottica dell'autore del testo, ma nell'ottica che di volta in volta noi ci formiamo autonomamente attraverso questo testo. E' la nostra interpretazione a fare la differenza. Leggere è prendere per mano la nostra stessa voglia di scrivere, di interpretare. Ecco perché si è cercato di iniziare da qui, dalla possibilità soggettiva che ognuno di noi ha di fronte ad un testo poetico, musicale o "semplicemente" letterario che sia. E partendo, come detto, dal Don Chisciotte, questo assunto sembra essere facilmente inquadrato. Egli, nelle tre canzoni Confessioni di Alonso Chisciano, Don Chisciotte e Per amore solo per amore mio, appare come una figura allo stesso tempo sacra e profana. Don Chisciotte e Sancho, il suo fido scudiero, appaiono come due facce della stessa medaglia, come i protagonisti di un autentico viaggio iniziatico attraverso un saliscendi quasi onirico e vorticoso che li espone a tutte le plausibili esperienze esistenziali (eros, amicizia, morte, onore, paura e sofferenza). Don Chisciotte nella canzone di Francesco Guccini appare come il vecchio cavaliere "costretto" dal mondo ad abbandonare le spoglie del suo "ristrettissimo Io". E' la società, è il tempo che formula l'appello all'uomo di ora, cioè all'uomo di sempre che deve comprendere chi sia effettivamente e perché possa esistere oltre il suo stesso "Io". E' così che i due, Sancho ed Alonso, accedono ad esperienze folgoranti.
Don Chisciotte dice: Sancho, ascoltami ti prego, sono stato anch'io un realista, ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista, l'apparenza delle cose come vedi non mi inganna, preferisco le sorprese di quest'anima tiranna, che trasforma coi suoi trucchi la realtà che ho lì davanti, ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti. Prima d'oggi m'annoiavo e volevo anche morire, ma ora sono un uomo nuovo che non teme di soffrire. E' questo il Chisciotte politico-arrabbiato di Guccini, quel cavaliere errante che finirà per dire che il potere è l'immondizia della storia degli umani, e anche se siamo due romantici rottami, sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte: siamo i grandi della Mancha, Sancho Panza e Don Chisciotte. E' un eroe orgoglioso quello che vien fuori dai versi di questa canzone, un eroe fiero del suo ruolo di scheggia di luce bianca, che brucia nella materia oscura della nostra società. Il Don Chisciotte di Guccini è il rivoluzionario dallo slancio generoso, parafrasi perfetta del nostro presente, incagliato negli abbagli di chi crede magnificamente di poter cambiare il mondo da solo, ma che poi si rivela a se stesso soltanto un accidente che rientra nelle capacità sognanti di ogni uomo. Non è poco certo. C'è bisogno di sogni pazzi in questo disastrato oggi che attraversiamo in stato di semi-coma. Il fatto, poi, che la canzone gucciniana, grazie anche alla presenza dell'alter ego, dello scudiero Sancho, si orienti su toni obliqui sembra un fatto ormai acquisito. Il testo, la lente d'ingrandimento del cantante modenese attraversa più che la vita dei due personaggi la loro realtà, la dignità da ritrovare, il presente dominato dalla meccanicità dei gesti a cui loro cercano di opporre l'anarchia dello slancio e del sentimento. Romantico e rivoluzionario è sia l'eroe, sia il mondo che li sta intorno. Il Chisciotte di Guccini è radicale, riesce ad esprimere il senso di un mistero, di un insieme di dubbi che da sempre ha accompagnato il cavaliere della Mancha. Il dramma dell'esistenza donchisciottesca si chiude come era cominciato: senza vincitori né vinti. Chisciotte è un eroe solo e illuso, quello che vien fuori dalla fantasia di Guccini, tanto diverso dall'Alonso Chisciano di Ivano Fossati, un eroe più spirituale, più disilluso, più malinconico, conscio dell'impossibilità di un qualsiasi confronto, anche quello più rivoluzionario, con la realtà. Giro nel mio deserto e sto tranquillo, ho solo il vento per barriera. Ah, che cavaliere triste. Da questi versi si può capire come si sia di fronte a quell'operazione che conduce l'uomo alla difficile prassi del riconoscimento di sé.
Ma chi è allora Don Chisciotte?
Un eroe romantico? Un pazzo visionario, un cialtrone? Chi è?
E' una grottesca e sarcastica deformazione umana. E' l'eroe che Cervantes pone al di sopra sia dell'astrazione cavalleresca, sia di quella letteraria dell'eroe tout court, del Dio umano, caro a tutta la letteratura del XVI e XVII secolo. E' un uomo che deve riflettere la mediocritas dell'umanità. Non credo che sia sempre valido in queste canzoni il concetto che vuole Cervantes pronto a scagliarsi contro una determinata classe sociale. Certo c'è aderenza al reale e questo è ben presente anche nella trasposizione musicale dei nostri tre poeti-cantanti. A me, a me una pazzia d'argento, al mio cavallo una pazzia di biada, dirà Fossati per il suo Alonso Chisciano. Un eroe piatto quello del cantautore genovese, così diverso da quello tutto slanci di Guccini, un eroe-antieroe che vive la sua esistenza come una mera registrazione di eventi, che non è in grado di leggere nel quotidiano, che non è neanche consapevole della propria realtà, Risvegliarmi un'altra volta senza fiato, fra il pianto scemo del barbiere e il sudore muto del curato, io qui vedo l'orizzonte, dirà il Don Chisciotte di Fossati, a proposito del suo passato, non appena si rende conto della sua nuova dimensione di anarchica malinconica libertà. Perché più che nella canzone di Guccini, forse troppo ricca di personalismi sociali, è in Fossati che la canzone italiana è riuscita a trovare i tratti psicologici più veri del Chisciotte di Cervantes. In questo testo il linguaggio del cantautore genovese si sposa di continuo con quello cervantiano attraverso una straordinaria pienezza di significati, realizzando una coesistenza di piani e di livelli di lettura che va da quello della assoluta banalità quotidiana (con la descrizione della piatta vita di paese), a quello di una sottile disamina psicologica, a quello che esprime l'assoluta emblematicità di una parabola universale di sogno e speranza. Il primo livello di lettura è quello che ovviamente salta agli occhi prima e vien quasi da pensare che non ci sia niente di nuovo. Un Don Chisciotte così come dovrebbe essere. Spesso, infatti, il primo e naturale approccio con il piano di lettura diciamo così "quotidiano" può risultare deludente. Tutto può essere espresso in poche parole, persino la trama ed il soggetto. Eppure è strano. Quanto più ci si abbandona alla memoria, al vissuto, tanto più viene voglia di pensare in maniera diversa al personaggio Don Chisciotte. Fossati chiude la sua canzone facendo dire al vecchio cavaliere Dormo nella follia e tutto il teatro con me [...] da una parte ti dico grazie e dall'altra continuo solo e senza corpo a scornarmi con il vento.
Che vuole dire Solo e senza corpo? Vuol dire che il personaggio Don Chisciotte ha raggiunto il suo scopo: si è sostituito alla sua stessa realtà, è diventato maschera, è diventato immortale e con l'immortalità letteraria ha acquisito anche il peso di continuare per sempre a lottare contro il vento, contro le ingiustizie vere o presunte di ogni mulino a vento. Il Don Chisciotte di Ivano Fossati è vero proprio nel suo istinto umano, è più vero, è più verosimile nel suo lato umano rispetto a quello di Guccini. E' meno gestuale, è vero, è anche forse meno spontaneo, ma entrambi, passando all'analisi degli altri due piani di lettura, riescono a creare il mito dell'immedesimazione con il personaggio. Chi di noi, infatti, almeno una volta non ha voluto opporsi con slancio matto alle ingiustizie della nostra società, e ancora chi di noi non ha provato , non ha sognato di far di se stesso un romantico paladino della verità?
La via si biforca: da un lato l'eroe sociale e antisociale, dall'altro un eroe di parola più che d'azione, un eroe introverso e solitario, un anarchicosognatore impegnato nella costruzione di un mondo a sua immagine e somiglianza.
Si passa così all'ultimo Don Chisciotte della musica italiana, quello di Roberto Vecchioni, un Vecchioni di fine anni '80, un Vecchioni interessato a far emergere il suo cavaliere errante non attraverso lo scontro sociale, non attraverso l'analisi psicologica dei propri dubbi e delle umane paure, ma bensì nell'amore onirico e filiale (e nello stesso tempo direi quasi incestuoso) con Sancho Panza, il suo fido scudiero? Sancho, per Vecchioni in questo testo, dimostra quel che tutto il teatro borghese italiano di inizio XX secolo, si pensi a Pirandello ad esempio, ha dimostrato, e cioè che l'uomo riesce a dare il meglio di sé, non quando possiede e controlla il potere, ma quando lotta e si prepara ad averlo (dove per potere non va intendeso solo il potere socio-politico, bensì la responsabilità del proprio agire, della propria libertà, delle proprie passioni, anche quelle amorose). E il Sancho di Vecchioni è uno scudiero innamorato, è lo scudiero, è l'arlecchino triste e immaginario servo del suo padrone e dell'amore, servo, quindi, di due padroni. In questa canzone Don Chisciotte non appare mai se non grazie al verso Ho combattuto il cuore dei mulini a vento insieme ad un vecchio pazzo che si crede me. Il vecchio pazzo è lui, è Don Chisciotte. La scena è tuttta dello scudiero fedele. Sancho ed il suo vecchio Chisciotte sono la stessa persona per Vecchioni. E' come un sogno, è come la storia di un sogno in cui l'uomo si dimentica di se stesso e vive come se fosse il personaggio di se stesso.

Per amore, per amore mio
, dice Sancho, ma è quello che potrebbe dire Don Chisciotte, è quello che ognuno di noi può dire o può aver detto nella propria vita. Vecchioni fa dire al suo personaggio Non eri ancora nata e già ti avevo dentro [...] ma più bello di averti è quando ti disegno, niente ha più realtà del sogno, il mondo non esiste, il mondo non è vero, e allora ho sognato di me. Sancho sogna, è il sogno di un amore, il sogno che da sempre si porta con sé, è l'amore che ogni uomo sente di avere dentro, è l'amore per l'amore, per un'idea , per una sensazione, per qualcosa che ognuno di noi sa di avere e che aspetta solo il momento giusto per venir fuori.


Hors jeu...un film sul calcio che non parla di calcio


Un film iraniano di Jafar Panahi con Sima Mobarak-Shahi, Shayesteh Irani, Ayda Sadeqi, Golnaz Farmani, Mahnaz Zabihi, Nazanin Sediq-zadeh, Melika Shafahi, Safdar Samandar, Mohammad Kheir-abadi

Genere: Commedia drammatica- Durata: 1H28 mn


Fine 2005: l’Iran è ad un passo dalla qualificazione per il campionato del mondo di calcio. Un gruppo di tifosi si avvia verso lo stadio della capitale per seguire la partita decisiva contro il Barhein. Tra questi tifosi cercano di nascondersi alcune ragazze, grandi appassionate di calcio, ma ufficialmente impossibilitate a recarsi allo stadio a causa di una legge che vieta l'oro di essere nei posti dove ci sono uomini sconosciuti. E' la storia di 6 ragazze che provano in tutti modi a vincere i pregiudizio maschili, che cercano di vivere le proprie idee, la propria passione con naturalezza e spontaneità.
Un film sul calcio, un film sociale che non fa vedere nessuna scena calcistica, un film che parla di donne, ma che parla come parlerebbe un uomo. Un film sulla globalizzazione delle passioni, un film sulle passioni che si scontrano con
la "prigionia" di una società maschilista e piena di pregiudizi.
Un amaro girotondo doloroso, fatto di fughe e ritorni sugli spalti dello stadio di Teheran, di sei tifose che hanno la "sola" colpa di essere donne, "dentro cui sono costrette a nascondere la loro femminilità". Un altro interessante film sulla ricerca della libertà e del superamento della solitudine spirituale oltre che fisica in cui son "costrette" le donne iraniane. Un film godibilissimo, un affresco moderno e spiritoso di un dramma antico, di un'emancipazione culturale che tarda a venire, di una mentalità da condannare.

L'errore errante del provincialismo italiano



Cos'hanno in comune un libro scritto nella metà degli anni ottanta da un trentenne alle prime armi, ma uscito solo in questi mesi per un banale disguido, ed un'opera terza di un talentuoso cineasta italiano? Stiamo parlando di Francesco Recami con il suo L'errore di Platini (111 pagg., 12 euro, Sellerio), e di Paolo Sorrentino, regista de L'amico di famiglia.
E'opportuno ricordare che il verbo errare in italiano ha due significati: uno, il più comune, indica lo sbaglio; l’altro, meno utilizzato nella lingua quotidiana, si riferisce al movimento di qualcosa o qualcuno, al suo scuotersi o agitarsi, di solito in segno di negazione o disapprovazione (errare senza meta, ad esempio), lo spostamento anche metafisico da un posto ad un altro.
La postura che Francesco Recami ha nel suo nuovo libro, L'errore di Platini, assieme al suo contenuto, alla cornice che lo contiene, è condensata con precisione nel doppio significato del verbo. Recami, per usare le stesse "parole", parole fatte di immagini, ovviamente, con le quali Sorrentino prova a descrivere i suo i personaggi (sia quelli delle Conseguenze dell'amore, sia quelle del suo ultimo film), non è un moralista che in nome dei valori supremi – bellezza, verità, armonia – condanna i comportamenti, le passioni della "sua" gente: amore, sogni, speranze e frustrazioni. Il fine è sempre quello di capire, il che non implica una assenza di giudizio. Anzi. Per farlo descrive, ma anche seziona: usa la sua intelligenza per separare "quel che è, da quel poteva essere ma...".
Al pensiero di un provincialismo culturale fatto di insoddisfazioni, di sogni ad occhi aperti, di incapacità di far fronte al quotidiano, Recami si affida al mito, ad un mito moderno, ad un eroe che non è più infallibile, un deus ex machina capace, con una giocata sbagliata, di invertire il corso di più vite.

Sia quello de L'errore di Platini, che quello de L'amico di famiglia appare come un microcosmo dannato. Ma se questo è vero, allo stesso tempo, va ricordato che, a poco a poco, quel movimento da lento e incredulo, passivo, diventa uno scuotimento vigoroso, come quando, risvegliandoci da un incubo e saltando a sedere nel nostro letto scrolliamo la testa per scacciare il sogno terribile e abbracciare la realtà del comodino, e del bicchiere d’acqua posato lì accanto a un libro. Di fronte al crollo delle certezze, del perbenismo provinciale Recami e Sorrentino affondano i loro affilatissimi strumenti analitici nelle macerie dolorose di un tempo dominato da ipocrisie, disillusioni, paure che si infittiscono sempre più. La riflessione critica sul "cuore italiano", ha, sembrano avvertire, Sorrentino e Recami, “la brevità e la necessaria icasticità di un punto di vista che muta per adattarsi agli obblighi ed all’interpretazione dei desideri del mondo contemporaneo”: una brevità dalla stupefacente, nutriente densità di pensiero, quella contenuta nel libro L'errore di Platini, una pungente, quanto amara e cinica ironia dietro il velo immobile della provincia piccolo borghese.
Se poi la realtà, a causa "dell’effetto di irrealtà” (per cui “la realtà viene percepita come una irrealtà, qualcosa di troppo grande per essere accettato come vero”) si trasforma “in qualcosa di irreale simile a un incubo”, e l'amico di famiglia assume una faccia ghignante e un tredici al vecchio e mai tanto rimpianto Totocalcio diventa l'alibi atteso tutta una vita per dirsi le cose come sono veramente, non resta allora che sperare nell’apocatastasi: la reintegrazione, alla fine di ogni cosa, dell'ordine iniziale degli eventi. Il tempo in cui ci troviamo, il tempo in cui vengono catapultati i lettori di Recami e gli spettatori di Sorrentino non è "l’ultimo", é, però, un tempo che non finisce di finire, un tempo penultimo, in cui anche un evento apparentemente positivo come la vincita ad una lotteria s’iscrive come possibilità e non solo come gioia finale”.

In classe...






Si mosse lentamente.
Guardò la cattedra attraverso quello che le sembrò un piccolo corridoio, quello spazio virtuale quanto fisico che si veniva a formare tra la fila destra e quella sinistra dei suoi compagni di classe seduti davanti a lei.
Si spostò verso la finestra.
fece qualche passo in avanti e qualche passo indietro.
Poi guardò il suo orologio e con la matita annotò l'ora sul suo banco.
Tornò a muoversi sbilanciandosi con il corpo sulla sedia.
Guardò la disposizione dei suoi compagni, poi si girò su se stessa e rivide la stessa disposizione nei cappotti appesi agli attaccapanni.
Si spostò verso il centro della classe.
Si fermò, guardò la posizione del suo professore.
Scattò in piedi, cercò di parlare, si spostò ancora più avanti verso i primi banchi della classe.
Voleva parlare, avrebbe voluto essere convincente.
Tornò indietro senza voltarsi, camminando all'indietro rifece gli stessi passi.
Guardò quel che faceva la sua compagna di banco.
Si fermò e guardò un'altra amica.
si spostò ancora una volta in avanti.
osservò il proprio posto da lontano.
Provò di nuovo a parlare, osservò la sua classe proprio come aveva fatto altre volte.
Annotò quel che avrebbe voluto dire.
Scrisse alcune parole su un foglio e lo diede ad un ragazzo.
Disse qualcosa fra sé e sé.
Vide il suo compagno pronunciare le parole che lei gli aveva scritto.
Tornò indietro di qualche passo.
Vide il viso del professore.
Continuò a camminare all'indietro.
Vide il professore alzarsi dalla cattedra e rimproverare il suo compagno.
Vide la desolazione negli occhi del suo amico dopo che era stato ripreso.
Non provò vergogna, ma senza volerlo piegò leggermente il mento verso il basso.
Tornò con lo sguardo al suo banco, tornò lì da dove non si era mai mossa.

domenica 10 dicembre 2006

Prima di partire per Tours







Come un equivoco, come se mi spingessi ad un passo ancora più in là.

Inventare domande, girarsi su se stessi, sempre senza cielo sul capo, ma poi limitarsi sempre a volti cari che non bastano per viversi, per strizzare fiato alla vita, e allora riprendere a scrivere, scrivere sperando che qualcuno mi regali con gli occhi qualcosa di me. Ti ho scritto, ma mi han detto che non ci sei e che non mi potrai parlare subito.

Come mi piacerebbe invece! Stasera scrivo io, stanotte ho voglia di parlare, ho voglia di passare la notte "sul viale del tramonto". Ho voglia di passare notte parlando.

Niente di tutto questo invece accadrà. So che resteranno le impressioni e altro non posso chiedere se non un silenzioso, improvviso lampo che mi venga a cercare quando meno me l'aspetto.

Non è l'ora propizia per desideri come questi, l'ho capito, ma ancora una volta mi lascio scappare favole da ventenne, ancora una volta ci provo pur sapendo come andrà a finire.

Forse è questo vento tiepido o la lontananza, più o meno "profonda", delle persone che mi hanno scritto fino ad ora, che alimenta la flebile ragione di una parola triste che si rincorre. Oppure è proprio così che si fa con chi si cerca e non si sa trovare.

Così, solo così, perché così si è veramente cattivi con se stessi e con gli altri.

Solo così, perché io mi conosco, e so che non potrei rinunciare tanto facilmente alla mia impazienza, al mio desiderio da tutto e subito. Perché, poi, tutto questo che racconto è già troppo ricco di sensazioni per aggiungerne altre con la fantasia, ed io sono e sarò quello che vedi, libero di chiedere perdono a chi come te ogni volta cerca di ascoltarmi, sarò libero di ridurmi a questo ogni notte che avrò voglia di farlo.

Non corri rischi, non preoccuparti. Sai già come liberarti di me, non aspettarti altri inutili suggerimenti! Fallo e basta, allora!

E non sono scuse le mie, non è un alibi per andare via, perché, nei piccoli particolari, la ripugnanza per questa buia nottata che si avvicina sembra dar risalto, già da ora, alle mie paure.

Sono paure di non voler provare la malinconia, sono sorrisi che rivendico a me stesso, sono anche deboli rimorsi.

Ho capito a chi sto scrivendo, ho sentito, parola dopo parola, tutti gli anni che ci separano.

Sono distratto da tutto questo, ma so che purtroppo nulla cambierà, perché io scrivo e tu dormi, io scrivo e tu non ci sei.

sabato 9 dicembre 2006

Sonetto 272 dei Rerum vulgarium fragmenta di Francesco Petrarca

SONETTO 272 DEI RERUM VULGARIUM FRAGMENTA

DI FRANCESCO PETRARCA

In questo sonetto si può vedere tutta la grande modernità del Petrarca. Il ritmo lento e malinconico dei suoi passi appaiono al lettore di ogni tempo come una musica dolce che scioglie la passione in una infinita malinconia.
E' la malinconia il vero paesaggio dell'opera. Un paesaggio interiorizzato quello che emerge con chiarezza nei versi di questo famoso sonetto.
Il Petrarca di questo sonetto è un Petrarca nuovo, un poeta, un uomo che non finge più di morire per amore, ma confessa quanto sia duro vivere se si è morti dentro.
L'Io è sempre lì, in quasi ogni verso a direzionare l'intera poesia («io ò di me stesso pietate, i' sarei già, tornami avanti, veggio al mio navigar, veggio fortuna, il mio nocchier, soglio»), sia quando è nominato direttamente, sia quando è sottaciuto o nascosto, come si può vedere in questi passaggi del sonetto.
Petrarca descrive un'assenza e lo fa grazie all'uso dell'Io, della centralità del soggetto, al contrario di quello che faceva la lirica medievale in cui al centro della poesia c'era sempre la donna amata. In questo sonetto Petrarca parla della sua vita che fugge, della vita troppo breve che non «s'arresta un'ora» (V.1) e della morte che «vien dietro a gran giornate» (V.2). Quando il poeta dice che «le cose presenti e le passate mi danno guerra, e le future ancora» (VV.3-4) dice che tutta la vita è piena di dolore, tutta: quella di oggi, di ieri e di domani. Il Petrarca, allora, nella prima quartina dice che la paura di morire rende la vita un male.
«e 'l rimembrare e l'aspettar m'accora, or quinci or quindi» (VV.5-6) Ieri come oggi, oggi come sarà domani: il poeta da un lato sembra mettere i ricordi («quinci»), dall'altro le aspettative («quindi»). Egli sembra avvolgere tutto con un mantello di dolore e di male. E' fortemente pessimista in questo inizio di sonetto. Non descrive questo male, non dice che cosa è.
«sì che 'n veritate, se non ch'i' ò di me stesso pietate, i' sarei già di questi pensier' fora» (VV. 6-8) E' con questi versi che Petrarca per la prima volta nella letteratura italiana parla chiaramente di suicidio. Per un istante il protagonista, l'Io, si è illuso di potersi dare la libertà dandosi la morte. I «pensier» (V.8) non sono le preoccupazioni, ma i dolori, i pensieri cupi, quelli che riguardano la morte. Nessun poeta medievale parla così chiaramente di suicidio, questa è un grande segno di modernità. C'era il suicidio per amore, ma era un suicidio per finta, una metafora, una consumazione dell'anima. Anche in questo sonetto il poeta parla dell'amore come di una cosa irrazionale, che può spingere l'uomo a gesti folli e privi di logica. L'amore è follia, e in una società molto religiosa come era quella medievale togliersi la vita per amore era l'unica possibilità per ridare dignità a questo gesto (insieme agli esempi della letteratura classica in cui abbondano i suicidi per amore) altrimenti duramente condannato. Ma la grande novità di questo sonetto è che questo non è propriamente un sonetto d'amore. Esso non parla d'amore, o almeno fino a questo verso non ne ha ancora parlato. Perché allora Petrarca parla di suicidio se non è per amore? E perché il poeta dice di aver avuto pietà di se stesso tanto da non togliersi la vita? Petrarca da buon uomo di fede ha avuto paura della dannazione eterna. La pietà verso se stesso lo ha salvato dalle pene riservate ai suicidi. Ma perché allora ha parlato di suicidio? Perché la sua vita appare in questa poesia avvolta da una nebbia che gli toglie il respiro. Tutto è avvolto di nero: il passato come il presente ed il futuro. E' la stanchezza di vivere.
Tutto quello che le parole del poeta non dicono lo dice il ritmo del sonetto: un ritmo ripetitivo, costante, persino monotono che deve dare l'idea di qualcosa che si ripete stancamente senza entusiasmi, Quello di Petrarca evidenziato in questa poesia è un cammino lungo e lento, un camminare sul posto. Ci sono sì indicazioni temporali. Si parla del tempo passato, di quello presente e di quello futuro, ma il presente che emerge da questi versi è un presente vuoto e stanco, proprio come il protagonista.
Importante è anche mettere in luce l'uso della «e». Petrarca dice «e le cose passate e le future» e usa altre volte la congiunzione «e» proprio per dare ulteriore risalto all'idea di quel ritmo lento e cadenzato di cui si è detto prima. Altro elemento da ricordare per mettere in risalto l'importanza del ritmo è la presenza di rime e anafore significative. Le rime del sonetto sono ora -ate - ai - arte - enti e sono rime che non catturano l'attenzione, perché il Petrarca vuole spostare l'attenzione del lettore sugli inizi dei versi, ed è qui che entra in scena l'anafora, scandita dal lungo susseguirsi di «e».
Accenti, pause, ripetizioni, rime e anafore si sommano fino ad annullarsi. Tutto sembra voler accompagnare un'idea fissa, quella di una vera e propria malattia che soffoca il poeta. Gli antichi, Dante ad esempio, la chiama accidia, noi depressione.
Accidioso era chi non riusciva a guardare la vita con la fiducia del cristiano credente. Petrarca sa che questa è una grande colpa, come si può vedere anche nel suo Secretum, ma non può fare niente per venirne fuori. L'accidia, come la moderna depressione è il disgusto per la vita. Presente, passato e futuro non hanno più alcuna importanza.
Dal V.11 al V.13 si ha una importante immagine simbolica. «Veggio al mio navigar turbati i venti; veggio fortuna in porto, e stanco omai il mio nocchier, e rotte àrbore e sarte». Per Petrarca la nave è la metafora della vita umana. Una allegoria classica quella della vita umana vista come una barca nel mare ondoso, un topos usatissimo usato da Petrarca un po' per agevolare il lettore con immagini consuete facile da decifrare e un po' anche perchè non ha probabilmente nessuna voglia, da accidioso-depresso, di inventarne di nuove. Chi è allora il nocchiero se non la sua ragione vacillante e cosa rappresenta l'albero rotto della nave se non la rovina e lo smarrimento sicuro della retta via. Eppure Petrarca non cade nel silenzio. Parla, continua a parlare e questo lo rende molto moderno e poco medievale.

Per concludere bisogna dire che questo è anche un sonetto d'amore. Laura non appare mai e non perché è ormai morta. Laura è un ricordo (V. 9-10) «tornami avanti, s'alcun dolce mai ebbe 'l cor tristo» e le dolcezze sono sicuramente quelle dell'amore. E' come se la parola d'amore si fosse fatta intima, come se Petrarca fosse diventato pudico e non volesse parlarne più. Quello di Petrarca di questo sonetto è l'amore di un vecchio, la nostalgia di un amore che ormai è morto ed ha perso il suo oggetto primario. Restano i «lumi spenti» (V.14). Petrarca ci dice che niente lo avrebbe potuto aiutare neanche Laura. I lumi spenti sono gli occhi di Laura? Forse. Forse il buio si fa luce e viceversa, ed è questa probabilmente una delle grandezze di Petrarca: la capacità di dire tutto ed il contrario di tutto con un semplice verso, è la contraddizione, la paura, la paura e la voglia di ogni uomo moderno ad esplodere nei suoi versi, a lasciare il segno a far sì che tutto questo possa essere associato ad ogni uomo moderno, che lo si ritrovi anche ora negli uomini del duemila.

Racconto...Pensare al presente




PENSARE AL PRESENTE


Maglione blu portato senza camicia su una maglietta bianca, jeans e scarpe
da ginnastica.
Sono le 8 e 10. E' una mattina di fine Novembre.
E' appena giusto che esca in fretta da casa e si diriga al lavoro.
Ma non ha nessuna voglia di pensare così.
Un po' perché per essere le 8 e 10 di un venerdì di fine Novembre ci sono
già 17 gradi di sole tiepido e promettente, un po' perché si sente nella
testa una specie di muro, un po' perché a pensarci bene un lavoro vero lui
non ce l'ha.
Ha 31 anni, sono le 8 e 13, si infila la giacca e la voce di sua madre lo
ferma davanti alla porta: - Vuoi il riso con le zucchine oppure ti faccio il
pesce? -
Ha 8 euro in tasca, la barba lunga di tre giorni e i capelli freschi di
shampoo: la voce della madre gli si ferma dinanzi come un problema e lui si
sente nauseato dal groviglio.
Esca senza una risposta: - Decidi tu. -
Ascensore, quarto piano, l'i-pod con Vecchioni che canta Samarcanda.
Si alza il bavero della giacca, è un gesto meccanico, lo fa dai tempi della
scuola, lo fa in tono normale che sembra dire che tutto sia inevitabile,
come tutto sia sempre perdonabile.
E' in strada, dietro di lui l'odore acre di lacca di un negozio di
parrucchiere, la mattina va aprendosi su se stessa.
- Oggi è troppo bello per lavorare, facciamo qualcosa di diverso, almeno una
cosa di cui domani non dovremo far fatica a ricordare? -
Sms che manda a tutti quelli che ha in rubrica, la rubrica del suo telefono
cellulare.
127 caratteri.
Dopo tre minuti riceve due risposte.
In una c'è scritto: - Invidia. -, nell'altra - Sono a casa, anch'io niente
lavoro oggi, una mezza influenza. -
Respira, ma non respira abbastanza.
Cammina adagio, come se nuotasse.
Arriva all'angolo e svolta a destra.
Via Imbriani.
Sono le 8 e 19, gli ultimi ragazzi si affrettano verso la scuola. Lo
incrociano, lo urtano, lo scansano.
Di tanto in tanto si ferma, si china, si aggiusta le sue calze a righe che
non stanno più su.
All'incrocio dove via Imbriani fa angolo con corso Cavour ha due
possibilità: andare a destra verso il mare, verso la città vecchia, oppure
proseguire diritto per via Dante, percorrere la strada che ogni mattina fa
per andare all'università.
Sono 16 anni che fa sempre la stessa strada.
E' un abitudinario.
Prima la faceva con il fratello a alcuni amici, era quando andava a scuola,
poi da solo, negli anni dell'università.
Un tempo gli piaceva lo scorcio di mare che si intravede da Corso Cavour
attraverso i due identici palazzi della Camera di Commercio e della Banca d'Italia.
Un tempo andare a scuola in una giornata così sarebbe stato un lusso a cui si sarebbe potuto tranquillamente rinunciare.
Terrorizzante-mobile-bisbiglio, era ciò che si sentiva quando si decideva di saltare la scuola. Paura di essere scoperto, il dubbio di star perdendo tempo, la paura delle prime possibili scelte.
Niente mare oggi, mentre percorre via Dante guarda i primi negozi aprirsi lentamente.
Svolta in via Melo e poi a destra verso il giardino di piazza Umberto. Troppo presto per i bambini che giocano con le nonne, troppo tardi per quelli che portano i loro cani a passeggio.
Di fronte a lui ormai c'è l'università. L'edificio intorno al quale si intersecano le vie più trafficate del quartiere.
Un edificio alto e massiccio,una specie di riparo senza che su di esso ci fosse mai vero chiarore.
Prosegue passando davanti ad un'edicola ed al portone dove si trova la sede dell'ufficio legale di un suo amico. E' quello che gli ha risposto, quello che ha scritto: - Invidia! - quello troppo intelligente per fare una cosa furba, quello troppo poco coraggioso per fare una cosa intelligente.
Continua a camminare: la stazione, il sotto passo che porta sulle arterie extramurali, i primi extracomunitari con le loro mercanzie, i portici già pieni di gente in ansia.
La strada è penetrata dal rumore delle automobili che in seconda o in prima "scendono" verso il centro. Sente le macchine passargli accanto, sente la voce di Bruce Spingsteen nei suoi auricolari bianchi.
Il suo respiro trilla come una sveglia che non riesce a farmare, tanto più forte quanto più uno ci fa caso, finché con una marmitta cadente un vecchio furgone iveco innesta un'altra marcia e lui si accorge, come di soprassalto, di essere arrivato all'incrocio fra via Capruzzi e via della Repubblica.
A questo punto è sotto il ponte che separa la Bari murattiana da quella degli anni 50.
A questo punto decidi se tornare a casa o proseguire fino al parco per goderti una stecca di cioccolato fondente e un ricordo da panorama estivo, lasciato là, in basso, sull'erba dove a Maggio e Giugno va a prendere il sole con alcuni amici.
Incrocia piccole vie laterali, ne supera tre a grandi passi, prima Frank Sinatra, poi De Gregori, Rimmel e Generale, e ora Hurricane di Bob Dylan attraverso il suo i-pod.
La strada si allarga negli ultimi 200 metri prima dell'imbocco del parco, i negozi piano piano si diradano e lasciano il posto ad uffici e banche.
Le macchine corrono tutte insieme come pezzetti di legno in un rigagnolo di acqua grigia. La sua mente si allontana innervosita dall'involontaria immagine del suo pranzo che sfrigola nel piatto, dell'acqua maculata di amido di riso che bolle.
Si sforza di pensare a qualcosa di piacevole, si sforza di non pensare a quello che dovrà fare nel pomeriggio, a quell'impegno che ha preso contro la sua volontà e che ormai lo fa sentire in trappola. La cosa sembra certa, in preda al suo disgusto, cerca il telefono.
Niente, nessuna chiamata, nessun messaggio in memoria. Nessun altro ha risposto, nessuno si è accorto di quello che lui ha voluto dire.
Immagina se stesso sul punto di calciare un pallone, ma sente di trovarsi da solo. Nessuno probabilmente andrà a riprendere quel pallone non appena lo avrà calciato.
Tenta di nuovo di raffigurarsi sua madre mentre commenta, troppo vicina o troppo distante, gli avvenimenti appresi dal telegiornale.
- Deve esserci qualcosa a questo punto. - I Doors cantano Love streets, l'acqua che fuoriesce da un tombino rotto e che, giallognola, si arriccia sull'asfalto gli ricorda quelle traiettorie diagonali che faceva quando da bambino correva con il pallone tra i piedi.
A un tratto è certo che ci sia qualche altra cosa in tutto questo, in questa mattina che sta camminando insieme a lui.
Strizza gli occhi al ricordo dei suoi 18 anni. Ricorda la sua prima ragazza, il parco, il suo primo bacio. Ricorda lei sul manubrio della sua bicicletta, ricorda la ragazza e la sua felpa rossa, ricorda se stesso, fratello piccolo di quello vede ogni giorno allo specchio, ricorda lei mentre gli dice: - tienimi Vinci. - ricorda la vergogna quando lei lo lasciò.
- Proviamoci ancora una volta, diamoci un'altra possibilità. -
- Ma io non ti amo, lo sai che non ti ho amato mai. -
E' sull'erba umida del parco che pensa a questo.
La crescente complessità della luce del sole lo fa sentire minacciato.
Vuole andare avanti. Si rialza. Sembra abbastanza semplice.
Sono le 9 e 25.
In trenta minuti sarebbe di nuovo a casa, potrebbe prendere la macchina e guidare verso sud, potrebbe ritrovarsi in perfetta salute sulle strade di un'altra città, può farlo, potrebbe provare a farlo.
Si siede su una panchina invece.
Si sbottona la giacca e guarda la gente passeggiare.
Non vuole che arrivino le dodici e con esse il rimorso di una mattina affrontata così.
Cerca un alibi, una scusa, qualcosa che lo faccia sentire giustificato.
Se fosse andato all'università probabilmente non avrebbe fatto niente lo stesso, proprio come sta accadendo al parco, qual è allora la differenza?
31 anni e non più 18?
Tutto sta nel non essere ridicoli, nel far tutto quel che si deve fare finché non manca che un soffio.
Intorno a lui non c'è molta gente.
Due signore con un passeggino e qualche ragazzo che corre in tuta.
- Scusi signora - dice ad una delle due, calcando sulla prima parola con un peso forzato, come uno storpio che prova a correre - qual è la strada per il centro? -
- Torna indietro - una signora in stivali marroni e gonna nera alza un dito e gli risponde - prendi via Della Repubblica, vai sempre dritto, dopo il ponte c'è Corso Cavour. -
- E se andassi verso destra? -
- Che vuoi dire? Arriveresti a Japigia. -
- Cosa c'è dopo Japigia? -
- Ma tu dove vuoi andare? -
La signora è paziente. Il suo viso ha al contempo qualcosa di materno, di sano e di stupido.
Per la prima volta dall'inizio della mattina si rende conto.
Si volta. Sono le 9 e 35. Sente attraverso i suoi capelli sulla nuca le due donne che lo seguono con lo sguardo.
E' in piedi. Due, tre, dieci passi dalle due signore con il passeggino.
Dieci, quindici, venti secondi, è quello che ci mette per allontanarsi da loro.
L'ariosa sensazione che aveva dentro è rovinata.
Il suo sguardo continua a tornare sul suo telefonino.
Sente di essere stranamente insensibile in superficie, proprio come se la sua pelle si stesse staccando dal suo corpo.
Il rumore delle auto sale tra le viuzze del parco. Quello strepito lo consola, lo fa sentire meno solo, gli dice che è ben nascosto ed è al sicuro ormai, che mentre lui si nasconde il mondo è indaffarato ad essere normale, che gli uomini corrono per mettersi le spalle a terra.
Solo 2 sms dai suoi amici.
Chiunque ti dica come ti devi regolare non te lo dice mai chiaramente.
- Il solo modo di arrivare in qualche posto è quello di decidere prima dove si vuole andare. -
119 caratteri, altre 2 euro e 20 centesimi spesi per mandare il messaggino a tutti.
Le labbra umide, gli occhiali, la barba rossiccia tutta arruffata.
- Non credo. - E' l'unica risposta che vorrebbe leggere, ma nessuno gli risponde, ormai i suoi amici sono abituati a questi suoi sms.
- Perché? Dove andiamo? - Era quello che avrebbe voluto domandare, ma senza corpo, finché quelle parole gli restano in testa, compie un dolce ed inusuale moto d'amore, quelle delle parole che non si dicono ma si vedono.
L'illusione al posto del rimorso e del rimpianto. Sente di essere lui senza neanche doversi guardare allo specchio, sente le risate in bocca ancor prima di mettersi a ridere.

Ah: questo è quello che è successo ieri, questo è quello che succederà domani, questo è quello che vuol dire non voler pensare al presente.