Dedicato alle stelle cadenti…le uniche che ancora si possono vedere.
In città mediamente piccole come Bari, venticinque o forse anche trenta anni fa, si passavano le domeniche d’inverno in casa, magari dai parenti, o di fronte alla radio per ascoltare le partite, in attesa di novantesimo minuto e della serale domenica sportiva. Era un tempo scandito dal riposo, dalle abitudini mutuate dalle generazioni precedenti. Il pranzo tutti insieme, la pennichella pomeridiana, poi magari la visita da qualche cugino o zio, la messa e poi solo verso sera i primi pensieri per la settimana che doveva iniziare.
Questo fino all’avvento della pay tv, fino a quando il lavoro settimanale non ci ha obbligato ad occupare il fine settimana in interminabili file negli ipermercati, che nel frattempo si sono aperti nelle periferie delle città, Bari compresa.
Eccoci allora, tutti in fila, uno uguale all’altro, con grandi carrelli pieni di cose che fino a qualche anno fa non sapevamo neanche che esistessero e che, soprattutto, fossero così indispensabili da farci passare l’unica giornata di non lavoro così, in coda.
Nei grandi capannoni che vendono mobili da montare (e chi li sa montare poi?), tutti uguali, tutti dai trenta ai quaranta anni, neo futuri sposi, tutti precari o poco più. E’ meraviglioso (nel senso della meraviglia che si prova, perché quasi non ci si crede) come ormai solo in certi posti si possa ritrovare una identità di “classe”, nell’accezione meno gramsciana possibile. Si provi, infatti, a passare un pomeriggio domenicale in un discount e si osservi la clientela. La stessa che un tempo frequentava i mercantini rionali, la gente di cui raccontava Pasolini, quella che poi sempre secondo Pasolini si è lasciata annullare dalla televisione, quella a cui la televisione ha strappato la propria identità culturale rendendola uguale a quella delle classi dominanti in cambio di un giubbotto alla moda, di un taglio di capelli trendy, del telefonino che fa anche il caffè. Con una provocazione, allora, potremmo dire che i tanto vituperati ipermercati hanno una loro funzione identitaria: rimetterci tutti insieme, noi precari, precari del lavoro, dell’amore, quindi single alla ricerca della spesa settimanale, precari della felicità, noi classe mille euro, noi sottolavoratori moderni.
Qualcuno ha detto una volta che noi italiani sappiamo benissimo come dovremmo essere, ma non come siamo. Secondo alcuni, noi siamo ancora divisi in modo furibondo tra guelfi e ghibellini sempre pronti a una guerra di “religione”, una guerra di principio. Secondo altri, sarebbe tipica del nostro carattere nazionale la tendenza all'accomodamento, al compromesso, all’accontentarsi, all’arrangiarsi sperando che passi “a’ nuttata”.
Strano paese il nostro. Un esempio per tutti, un esempio molto attuale in questi giorni di dibattito sull’aborto. Secondo l'anagrafe, i cattolici sfiorano in Italia il 98%, ma, secondo un recente sondaggio quelli impegnati, che ci tengono a comportarsi come tali, non superano l'8%. Oggi solo il 12% dichiara di confessarsi almeno una volta al mese, la maggioranza dichiara con bella disinvoltura di non credere all'esistenza dell'inferno e del paradiso, e che dopotutto "c'è qualcosa di vero in tutte le religioni; l'una vale l'altra". L’immagine che ne vien fuori? Un’Italia senza una precisa identità, del “così è se ci pare” di Pirandelliana memoria
E allora diciamoci la verità: aveva o non aveva ragione Francesco De Gregori quando in Stella stellina, agli inizi degli anni ottanta cantava “Probabilmente cominciò con la corriera e con la ferrovia, un uomo chiuse lo sportello e la campagna volò via. Avevi unghie laccate sopra mani da contadina e due orecchini di corallo di quand'eri ragazzina. E ti leggevi i libri che parlavono solo d'amore e poi chissà che altro avevi dentro al cuore. E un anno passa e un anno vola e un anno cambia faccia e una città che muore, che protegge e che minaccia”, un De Gregori, che secondo la buona tradizione poetico-musicale italiana, univa il sentimento al sociale (Dante e Petrarca hanno lasciato un segno indelebile nelle nostre coscienze sia di scrittori-poeti-musicisti, sia di ascoltatori e lettori), che passava dalla descrizione di una ragazza a quella della società meridionale in cui questa ragazza cresceva.
Un affresco non certo generazionale, come spesso De Gregori ci ha abituato, ma identitario. L’Italia vista nelle contraddizioni sfumate di una ragazza, l’Italia che “ci tiene ad essere” qualcosa che non è mai stata o non lo è più. Niente da obiettare, naturalmente, ognuno deve poter essere quello che vuole e anche le code domenicali negli ipermercati non sono altro che il segno del cambiamento dei tempi. Niente da dire, ma non si può lo stesso dimenticare che la massificazione, non tanto dei costumi quanto delle abitudini, porterà a scompensi sociali sempre più difficili da arginare, in termini educativi, psicologici e quindi identitari. Cosa fare allora? O meglio, cosa pensare? “…e non importa niente se capisci che non era vero, c'è sempre tempo per un'altra mano e per un sogno ancora intero. Prendila come viene, prendila come vuoi, non t'impicciare più della tua vita che non sono affari tuoi. Prendila come viene, prendila come va, stella stellina, stella cadente, stella, stella”.
Forse tornare al conosci te stesso e al non vergognarsi mai di se stesso, neanche quando si è in coda in un grande magazzino di mobili fai da te.