sabato 16 dicembre 2006


LETTERATURA E MUSICA...IL CASO CHISCIOTTE


Che cos'è la poesia?
Penso che sia una domanda talmente ingenua da risultare abissale. E' una domanda, una di quelle domande che forse, dico forse, almeno una volta nella vita ognuno di noi si è ritrovato a fare accostandosi ad un qualsiasi testo poetico.
Io credo che la poesia, per sua naturale vocazione, sia l'anarchia della coscienza allo stato puro, ciò che prova a conciliare lo stato d'ordine della ragione con il caos della passione, l'immagine del reale con l'inimmaginabile dell'emozione.
Purtroppo da moltissimo tempo la poesia italiana si è come arenata. E' come se noi Italiani avessimo scelto un bordo statico e poco coraggioso da cui assistere alla fine della nostra tradizione poetica. Quanti di noi, infatti, leggono, comprano testi poetici, quanti di noi hanno letto poesia al di fuori degli obblighi scolastici? Credo pochi. La poesia italiana poi, non si è certo aiutata scegliendo la norma anziché la rottura dell'ordine, la lingua solida anziché l'infinitudine della sperimentazione linguistica e tematica.
Tutta la poesia italiana, infatti, versa in uno stato se non proprio di decadenza quanto meno di rigidità, di stasi, di attesa. Ecco allora che il connubio con la musica, con la cosiddetta canzone d'autore corre in soccorso della produzione lirica italiana. Poesia e non poesia era stato uno dei crucci intellettuali di Benedetto Croce, assioma che si ripropone in questi ultimi anni nel dibattito tutto italiano sulla canzone e sulla possibilità che questa sia equiparata alla poesia. Che cos'è allora la poesia vista attraverso l'occhio, attraverso la possibilità del connubio con la canzone d'autore? Poesia e canzone è un ritorno alle origini, poesia è Cesare perduto nella pioggia che aspetta da 3 ore il suo amore ballerina, della canzone Alice di Francesco De Gregori, è Cesare che rimane lì a bagnarsi ancora un po', poesia è quel ancora un po', perché è grazie a quel ancora un po' che il cantautore, il poeta, riesce a darci ( grazie solo a queste due piccole parole ) il senso, la ragione, il sentimento, la drammaticità ostinata e cieca della passione di Cesare, Cesare Pavese in questo caso. Che vuol dire quel ancora un po'? E' l'Io poetico, è lo specchio di un amore che rischia con il proprio star male, con il proprio dolore, è andare un po' più in là con la propria dignità, è farsi affogare nel fango, nella merda, come lo stesso Cesare Pavese ebbe a dire, è continuare ad andare in direzione ostinata e contraria, è far fatica a capire se si tratta di poesia o di caos, di amore o 'semplice' follia.
La poesia italiana contemporanea, ma forse dovrei dire la letteratura italiana tout court, ha perso il gusto per la sperimentazione, per il nuovo, ha indubbiamente perso il suo pubblico, ha smarrito quella gioventù che per secoli (fino all'oscurantismo controriformistico del XVI secolo) era stata la base dei suoi fruitori. E allora noi tutti a chiederci: -ma i giovani non leggono più? Non leggono più la poesia?- No, non la leggono, la ascoltano, però. I giovani sono i maggiori fruitori del prodotto letterario musicale.
-E da quando in qua la poesia si può anche ascoltare?- Da sempre. La poesia è sempre stata ascoltata, anzi la poesia nasce con un accompagnamento musicale, di cetra per la precisione. Il cerchio allora pare essersi chiuso. Da Omero si passa a De Andrè, da Ariosto a Vecchioni a Paolo Conte. Il salto non è certo breve e privo di difficoltà, bisogna ammetterlo, ma quel che sembra essere importante sapere, o meglio ricordare, è che da sempre la poesia ha cercato nella musica, dai provenzali, al madrigale cinquecentesco, fino al melodramma ed ai libretti operistici dell'Ottocento, la sua fonte d'ispirazione, di "sfogo creativo" e comunicativo.
Detto questo e ricordato come è comunque riduttivo vedere la canzone esclusivamente come strumento comunicativo ad uso e consumo di quella fetta di pubblico prevalentemente giovane (quelli che in prevalenza comprano i dischi), le cui attese sembrano soddisfarsi con tutto ciò che parla di loro, dei loro problemi o che se non altro si proponga come surrogato di quei valori culturali. Non appare un azzardo, quindi, affermare che o la letteratura, la poesia, si adegua a queste nuove regole estetico-commerciali o perde definitivamente quel ruolo socializzante che per secoli ha avuto.
Il rapporto fra musica e letteratura da sempre nasce all'insegna della confusione e dell'incertezza. Come non ricordare a questo proposito gli sviluppi musico-letterari nelle corti umanistico-rinascimentali alla fine del '400 e per tutto il corso del XVI secolo, o l'esperienza dei melodrammi metastasiani di epoca successiva. Ma perché oggi la musica si serve della poesia, della letteratura tout court? Semplicemente perché la letteratura esprime casi umani, un universo ricco e composito in cui ognuno di noi ci si può rivedere, in cui ognuno di noi può trovare la sua storia, il suo sogno, o semplicemente quello che è stato il suo amore, proprio quello che fa la canzone.
Chi è allora Don Chisciotte se non un vero e proprio sopravvissuto ad ogni epoca? Sinceramente credo che pochi personaggi, più o meno politici ed impegnati abbiano la stessa efficacia letteraria e musicale di questo. Negli ultimi anni, infatti, tre cantanti italiani hanno raccontato in musica le gesta del cavaliere della Mancha: Fossati, Vecchioni e Guccini. In modi differenti hanno colto nel personaggio di Cervantes elementi delle volte contrastanti, in grado però di dar vita ad un personaggio poliedrico, ricco di mille sfaccettature e dalla moderna problematicità. Tre affreschi che insieme danno vita ad un personaggio completo, assai vicino a quello letterario.
E se l'esperienza in un testo narrativo sta nell'intreccio attraverso il quale l'autore fa emergere la forma del suo pensiero, in un testo musicale è spesso l'Io narrante il protagonista della vicenda, difficilmente, infatti, si ha la presenza di un narratore esterno. La poesia, così come la canzone non può essere velleitaria, non deve esserlo, non deve essere né decorazione né consolazione, o peggio ancora una copertura della realtà. Deve comunicare attraverso la rapidità, l'essenzialità del verso, proprio come la poesia, la poesia moderna.
Pirandello diceva che si è aperto un buco nel cielo di carta. Ebbene il buco nel cielo di carta è partire da zero, è l'umorismo, è la fine di qualsiasi punto di riferimento, per chi scrive come per chi legge. La canzone inizia a racconto concluso. E' quasi un ricordo, le vicende non possono cambiare, tutto è già scritto, è tutto qui. E' un po' come saper cosa dire, come saper dove mettere le mani. E' parlare di Don Chisciotte, di Garibaldi, di Dino Campana attraverso la vita già conclusa di questi personaggi.
Scrivere è questo. E' esprimere un messaggio, è comunicare. Leggere, ascoltare, invece, vuol dire produrre senso, vuol dire dare un senso, un senso personale e soggettivo a questo messaggio che altrimenti rimarrebbe solo una sterile gestualità dell'autore. Io penso che sia molto più facile scrivere qualcosa che leggere e ascoltarla. Quando si scrive si esprime solo la propria personalità, nel leggere, nell'interpretare, invece, ci si scontra-incontra con la sopraffazione dell'altro, con il pensiero di chi scrive. Scrivere una poesia è più facile che leggerla, che capirla. E allora mi chiedo se veramente leggere sia come dice un critico contemporaneo "aumentare le proprie esperienze con quelle della vita di altri". E allora cos'è la poesia, cosa vuol dire leggere una poesia al giorno d'oggi, cosa vuol dire ascoltare una canzone d'autore? E' leggere quel che altri hanno scritto di te prima di te. E' il ciclo umano che si ripete. Leggere è desiderare se stessi in un'altra ottica, non per forza, però, nell'ottica dell'autore del testo, ma nell'ottica che di volta in volta noi ci formiamo autonomamente attraverso questo testo. E' la nostra interpretazione a fare la differenza. Leggere è prendere per mano la nostra stessa voglia di scrivere, di interpretare. Ecco perché si è cercato di iniziare da qui, dalla possibilità soggettiva che ognuno di noi ha di fronte ad un testo poetico, musicale o "semplicemente" letterario che sia. E partendo, come detto, dal Don Chisciotte, questo assunto sembra essere facilmente inquadrato. Egli, nelle tre canzoni Confessioni di Alonso Chisciano, Don Chisciotte e Per amore solo per amore mio, appare come una figura allo stesso tempo sacra e profana. Don Chisciotte e Sancho, il suo fido scudiero, appaiono come due facce della stessa medaglia, come i protagonisti di un autentico viaggio iniziatico attraverso un saliscendi quasi onirico e vorticoso che li espone a tutte le plausibili esperienze esistenziali (eros, amicizia, morte, onore, paura e sofferenza). Don Chisciotte nella canzone di Francesco Guccini appare come il vecchio cavaliere "costretto" dal mondo ad abbandonare le spoglie del suo "ristrettissimo Io". E' la società, è il tempo che formula l'appello all'uomo di ora, cioè all'uomo di sempre che deve comprendere chi sia effettivamente e perché possa esistere oltre il suo stesso "Io". E' così che i due, Sancho ed Alonso, accedono ad esperienze folgoranti.
Don Chisciotte dice: Sancho, ascoltami ti prego, sono stato anch'io un realista, ma ormai oggi me ne frego e, anche se ho una buona vista, l'apparenza delle cose come vedi non mi inganna, preferisco le sorprese di quest'anima tiranna, che trasforma coi suoi trucchi la realtà che ho lì davanti, ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti. Prima d'oggi m'annoiavo e volevo anche morire, ma ora sono un uomo nuovo che non teme di soffrire. E' questo il Chisciotte politico-arrabbiato di Guccini, quel cavaliere errante che finirà per dire che il potere è l'immondizia della storia degli umani, e anche se siamo due romantici rottami, sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte: siamo i grandi della Mancha, Sancho Panza e Don Chisciotte. E' un eroe orgoglioso quello che vien fuori dai versi di questa canzone, un eroe fiero del suo ruolo di scheggia di luce bianca, che brucia nella materia oscura della nostra società. Il Don Chisciotte di Guccini è il rivoluzionario dallo slancio generoso, parafrasi perfetta del nostro presente, incagliato negli abbagli di chi crede magnificamente di poter cambiare il mondo da solo, ma che poi si rivela a se stesso soltanto un accidente che rientra nelle capacità sognanti di ogni uomo. Non è poco certo. C'è bisogno di sogni pazzi in questo disastrato oggi che attraversiamo in stato di semi-coma. Il fatto, poi, che la canzone gucciniana, grazie anche alla presenza dell'alter ego, dello scudiero Sancho, si orienti su toni obliqui sembra un fatto ormai acquisito. Il testo, la lente d'ingrandimento del cantante modenese attraversa più che la vita dei due personaggi la loro realtà, la dignità da ritrovare, il presente dominato dalla meccanicità dei gesti a cui loro cercano di opporre l'anarchia dello slancio e del sentimento. Romantico e rivoluzionario è sia l'eroe, sia il mondo che li sta intorno. Il Chisciotte di Guccini è radicale, riesce ad esprimere il senso di un mistero, di un insieme di dubbi che da sempre ha accompagnato il cavaliere della Mancha. Il dramma dell'esistenza donchisciottesca si chiude come era cominciato: senza vincitori né vinti. Chisciotte è un eroe solo e illuso, quello che vien fuori dalla fantasia di Guccini, tanto diverso dall'Alonso Chisciano di Ivano Fossati, un eroe più spirituale, più disilluso, più malinconico, conscio dell'impossibilità di un qualsiasi confronto, anche quello più rivoluzionario, con la realtà. Giro nel mio deserto e sto tranquillo, ho solo il vento per barriera. Ah, che cavaliere triste. Da questi versi si può capire come si sia di fronte a quell'operazione che conduce l'uomo alla difficile prassi del riconoscimento di sé.
Ma chi è allora Don Chisciotte?
Un eroe romantico? Un pazzo visionario, un cialtrone? Chi è?
E' una grottesca e sarcastica deformazione umana. E' l'eroe che Cervantes pone al di sopra sia dell'astrazione cavalleresca, sia di quella letteraria dell'eroe tout court, del Dio umano, caro a tutta la letteratura del XVI e XVII secolo. E' un uomo che deve riflettere la mediocritas dell'umanità. Non credo che sia sempre valido in queste canzoni il concetto che vuole Cervantes pronto a scagliarsi contro una determinata classe sociale. Certo c'è aderenza al reale e questo è ben presente anche nella trasposizione musicale dei nostri tre poeti-cantanti. A me, a me una pazzia d'argento, al mio cavallo una pazzia di biada, dirà Fossati per il suo Alonso Chisciano. Un eroe piatto quello del cantautore genovese, così diverso da quello tutto slanci di Guccini, un eroe-antieroe che vive la sua esistenza come una mera registrazione di eventi, che non è in grado di leggere nel quotidiano, che non è neanche consapevole della propria realtà, Risvegliarmi un'altra volta senza fiato, fra il pianto scemo del barbiere e il sudore muto del curato, io qui vedo l'orizzonte, dirà il Don Chisciotte di Fossati, a proposito del suo passato, non appena si rende conto della sua nuova dimensione di anarchica malinconica libertà. Perché più che nella canzone di Guccini, forse troppo ricca di personalismi sociali, è in Fossati che la canzone italiana è riuscita a trovare i tratti psicologici più veri del Chisciotte di Cervantes. In questo testo il linguaggio del cantautore genovese si sposa di continuo con quello cervantiano attraverso una straordinaria pienezza di significati, realizzando una coesistenza di piani e di livelli di lettura che va da quello della assoluta banalità quotidiana (con la descrizione della piatta vita di paese), a quello di una sottile disamina psicologica, a quello che esprime l'assoluta emblematicità di una parabola universale di sogno e speranza. Il primo livello di lettura è quello che ovviamente salta agli occhi prima e vien quasi da pensare che non ci sia niente di nuovo. Un Don Chisciotte così come dovrebbe essere. Spesso, infatti, il primo e naturale approccio con il piano di lettura diciamo così "quotidiano" può risultare deludente. Tutto può essere espresso in poche parole, persino la trama ed il soggetto. Eppure è strano. Quanto più ci si abbandona alla memoria, al vissuto, tanto più viene voglia di pensare in maniera diversa al personaggio Don Chisciotte. Fossati chiude la sua canzone facendo dire al vecchio cavaliere Dormo nella follia e tutto il teatro con me [...] da una parte ti dico grazie e dall'altra continuo solo e senza corpo a scornarmi con il vento.
Che vuole dire Solo e senza corpo? Vuol dire che il personaggio Don Chisciotte ha raggiunto il suo scopo: si è sostituito alla sua stessa realtà, è diventato maschera, è diventato immortale e con l'immortalità letteraria ha acquisito anche il peso di continuare per sempre a lottare contro il vento, contro le ingiustizie vere o presunte di ogni mulino a vento. Il Don Chisciotte di Ivano Fossati è vero proprio nel suo istinto umano, è più vero, è più verosimile nel suo lato umano rispetto a quello di Guccini. E' meno gestuale, è vero, è anche forse meno spontaneo, ma entrambi, passando all'analisi degli altri due piani di lettura, riescono a creare il mito dell'immedesimazione con il personaggio. Chi di noi, infatti, almeno una volta non ha voluto opporsi con slancio matto alle ingiustizie della nostra società, e ancora chi di noi non ha provato , non ha sognato di far di se stesso un romantico paladino della verità?
La via si biforca: da un lato l'eroe sociale e antisociale, dall'altro un eroe di parola più che d'azione, un eroe introverso e solitario, un anarchicosognatore impegnato nella costruzione di un mondo a sua immagine e somiglianza.
Si passa così all'ultimo Don Chisciotte della musica italiana, quello di Roberto Vecchioni, un Vecchioni di fine anni '80, un Vecchioni interessato a far emergere il suo cavaliere errante non attraverso lo scontro sociale, non attraverso l'analisi psicologica dei propri dubbi e delle umane paure, ma bensì nell'amore onirico e filiale (e nello stesso tempo direi quasi incestuoso) con Sancho Panza, il suo fido scudiero? Sancho, per Vecchioni in questo testo, dimostra quel che tutto il teatro borghese italiano di inizio XX secolo, si pensi a Pirandello ad esempio, ha dimostrato, e cioè che l'uomo riesce a dare il meglio di sé, non quando possiede e controlla il potere, ma quando lotta e si prepara ad averlo (dove per potere non va intendeso solo il potere socio-politico, bensì la responsabilità del proprio agire, della propria libertà, delle proprie passioni, anche quelle amorose). E il Sancho di Vecchioni è uno scudiero innamorato, è lo scudiero, è l'arlecchino triste e immaginario servo del suo padrone e dell'amore, servo, quindi, di due padroni. In questa canzone Don Chisciotte non appare mai se non grazie al verso Ho combattuto il cuore dei mulini a vento insieme ad un vecchio pazzo che si crede me. Il vecchio pazzo è lui, è Don Chisciotte. La scena è tuttta dello scudiero fedele. Sancho ed il suo vecchio Chisciotte sono la stessa persona per Vecchioni. E' come un sogno, è come la storia di un sogno in cui l'uomo si dimentica di se stesso e vive come se fosse il personaggio di se stesso.

Per amore, per amore mio
, dice Sancho, ma è quello che potrebbe dire Don Chisciotte, è quello che ognuno di noi può dire o può aver detto nella propria vita. Vecchioni fa dire al suo personaggio Non eri ancora nata e già ti avevo dentro [...] ma più bello di averti è quando ti disegno, niente ha più realtà del sogno, il mondo non esiste, il mondo non è vero, e allora ho sognato di me. Sancho sogna, è il sogno di un amore, il sogno che da sempre si porta con sé, è l'amore che ogni uomo sente di avere dentro, è l'amore per l'amore, per un'idea , per una sensazione, per qualcosa che ognuno di noi sa di avere e che aspetta solo il momento giusto per venir fuori.


Hors jeu...un film sul calcio che non parla di calcio


Un film iraniano di Jafar Panahi con Sima Mobarak-Shahi, Shayesteh Irani, Ayda Sadeqi, Golnaz Farmani, Mahnaz Zabihi, Nazanin Sediq-zadeh, Melika Shafahi, Safdar Samandar, Mohammad Kheir-abadi

Genere: Commedia drammatica- Durata: 1H28 mn


Fine 2005: l’Iran è ad un passo dalla qualificazione per il campionato del mondo di calcio. Un gruppo di tifosi si avvia verso lo stadio della capitale per seguire la partita decisiva contro il Barhein. Tra questi tifosi cercano di nascondersi alcune ragazze, grandi appassionate di calcio, ma ufficialmente impossibilitate a recarsi allo stadio a causa di una legge che vieta l'oro di essere nei posti dove ci sono uomini sconosciuti. E' la storia di 6 ragazze che provano in tutti modi a vincere i pregiudizio maschili, che cercano di vivere le proprie idee, la propria passione con naturalezza e spontaneità.
Un film sul calcio, un film sociale che non fa vedere nessuna scena calcistica, un film che parla di donne, ma che parla come parlerebbe un uomo. Un film sulla globalizzazione delle passioni, un film sulle passioni che si scontrano con
la "prigionia" di una società maschilista e piena di pregiudizi.
Un amaro girotondo doloroso, fatto di fughe e ritorni sugli spalti dello stadio di Teheran, di sei tifose che hanno la "sola" colpa di essere donne, "dentro cui sono costrette a nascondere la loro femminilità". Un altro interessante film sulla ricerca della libertà e del superamento della solitudine spirituale oltre che fisica in cui son "costrette" le donne iraniane. Un film godibilissimo, un affresco moderno e spiritoso di un dramma antico, di un'emancipazione culturale che tarda a venire, di una mentalità da condannare.

L'errore errante del provincialismo italiano



Cos'hanno in comune un libro scritto nella metà degli anni ottanta da un trentenne alle prime armi, ma uscito solo in questi mesi per un banale disguido, ed un'opera terza di un talentuoso cineasta italiano? Stiamo parlando di Francesco Recami con il suo L'errore di Platini (111 pagg., 12 euro, Sellerio), e di Paolo Sorrentino, regista de L'amico di famiglia.
E'opportuno ricordare che il verbo errare in italiano ha due significati: uno, il più comune, indica lo sbaglio; l’altro, meno utilizzato nella lingua quotidiana, si riferisce al movimento di qualcosa o qualcuno, al suo scuotersi o agitarsi, di solito in segno di negazione o disapprovazione (errare senza meta, ad esempio), lo spostamento anche metafisico da un posto ad un altro.
La postura che Francesco Recami ha nel suo nuovo libro, L'errore di Platini, assieme al suo contenuto, alla cornice che lo contiene, è condensata con precisione nel doppio significato del verbo. Recami, per usare le stesse "parole", parole fatte di immagini, ovviamente, con le quali Sorrentino prova a descrivere i suo i personaggi (sia quelli delle Conseguenze dell'amore, sia quelle del suo ultimo film), non è un moralista che in nome dei valori supremi – bellezza, verità, armonia – condanna i comportamenti, le passioni della "sua" gente: amore, sogni, speranze e frustrazioni. Il fine è sempre quello di capire, il che non implica una assenza di giudizio. Anzi. Per farlo descrive, ma anche seziona: usa la sua intelligenza per separare "quel che è, da quel poteva essere ma...".
Al pensiero di un provincialismo culturale fatto di insoddisfazioni, di sogni ad occhi aperti, di incapacità di far fronte al quotidiano, Recami si affida al mito, ad un mito moderno, ad un eroe che non è più infallibile, un deus ex machina capace, con una giocata sbagliata, di invertire il corso di più vite.

Sia quello de L'errore di Platini, che quello de L'amico di famiglia appare come un microcosmo dannato. Ma se questo è vero, allo stesso tempo, va ricordato che, a poco a poco, quel movimento da lento e incredulo, passivo, diventa uno scuotimento vigoroso, come quando, risvegliandoci da un incubo e saltando a sedere nel nostro letto scrolliamo la testa per scacciare il sogno terribile e abbracciare la realtà del comodino, e del bicchiere d’acqua posato lì accanto a un libro. Di fronte al crollo delle certezze, del perbenismo provinciale Recami e Sorrentino affondano i loro affilatissimi strumenti analitici nelle macerie dolorose di un tempo dominato da ipocrisie, disillusioni, paure che si infittiscono sempre più. La riflessione critica sul "cuore italiano", ha, sembrano avvertire, Sorrentino e Recami, “la brevità e la necessaria icasticità di un punto di vista che muta per adattarsi agli obblighi ed all’interpretazione dei desideri del mondo contemporaneo”: una brevità dalla stupefacente, nutriente densità di pensiero, quella contenuta nel libro L'errore di Platini, una pungente, quanto amara e cinica ironia dietro il velo immobile della provincia piccolo borghese.
Se poi la realtà, a causa "dell’effetto di irrealtà” (per cui “la realtà viene percepita come una irrealtà, qualcosa di troppo grande per essere accettato come vero”) si trasforma “in qualcosa di irreale simile a un incubo”, e l'amico di famiglia assume una faccia ghignante e un tredici al vecchio e mai tanto rimpianto Totocalcio diventa l'alibi atteso tutta una vita per dirsi le cose come sono veramente, non resta allora che sperare nell’apocatastasi: la reintegrazione, alla fine di ogni cosa, dell'ordine iniziale degli eventi. Il tempo in cui ci troviamo, il tempo in cui vengono catapultati i lettori di Recami e gli spettatori di Sorrentino non è "l’ultimo", é, però, un tempo che non finisce di finire, un tempo penultimo, in cui anche un evento apparentemente positivo come la vincita ad una lotteria s’iscrive come possibilità e non solo come gioia finale”.

In classe...






Si mosse lentamente.
Guardò la cattedra attraverso quello che le sembrò un piccolo corridoio, quello spazio virtuale quanto fisico che si veniva a formare tra la fila destra e quella sinistra dei suoi compagni di classe seduti davanti a lei.
Si spostò verso la finestra.
fece qualche passo in avanti e qualche passo indietro.
Poi guardò il suo orologio e con la matita annotò l'ora sul suo banco.
Tornò a muoversi sbilanciandosi con il corpo sulla sedia.
Guardò la disposizione dei suoi compagni, poi si girò su se stessa e rivide la stessa disposizione nei cappotti appesi agli attaccapanni.
Si spostò verso il centro della classe.
Si fermò, guardò la posizione del suo professore.
Scattò in piedi, cercò di parlare, si spostò ancora più avanti verso i primi banchi della classe.
Voleva parlare, avrebbe voluto essere convincente.
Tornò indietro senza voltarsi, camminando all'indietro rifece gli stessi passi.
Guardò quel che faceva la sua compagna di banco.
Si fermò e guardò un'altra amica.
si spostò ancora una volta in avanti.
osservò il proprio posto da lontano.
Provò di nuovo a parlare, osservò la sua classe proprio come aveva fatto altre volte.
Annotò quel che avrebbe voluto dire.
Scrisse alcune parole su un foglio e lo diede ad un ragazzo.
Disse qualcosa fra sé e sé.
Vide il suo compagno pronunciare le parole che lei gli aveva scritto.
Tornò indietro di qualche passo.
Vide il viso del professore.
Continuò a camminare all'indietro.
Vide il professore alzarsi dalla cattedra e rimproverare il suo compagno.
Vide la desolazione negli occhi del suo amico dopo che era stato ripreso.
Non provò vergogna, ma senza volerlo piegò leggermente il mento verso il basso.
Tornò con lo sguardo al suo banco, tornò lì da dove non si era mai mossa.

domenica 10 dicembre 2006

Prima di partire per Tours







Come un equivoco, come se mi spingessi ad un passo ancora più in là.

Inventare domande, girarsi su se stessi, sempre senza cielo sul capo, ma poi limitarsi sempre a volti cari che non bastano per viversi, per strizzare fiato alla vita, e allora riprendere a scrivere, scrivere sperando che qualcuno mi regali con gli occhi qualcosa di me. Ti ho scritto, ma mi han detto che non ci sei e che non mi potrai parlare subito.

Come mi piacerebbe invece! Stasera scrivo io, stanotte ho voglia di parlare, ho voglia di passare la notte "sul viale del tramonto". Ho voglia di passare notte parlando.

Niente di tutto questo invece accadrà. So che resteranno le impressioni e altro non posso chiedere se non un silenzioso, improvviso lampo che mi venga a cercare quando meno me l'aspetto.

Non è l'ora propizia per desideri come questi, l'ho capito, ma ancora una volta mi lascio scappare favole da ventenne, ancora una volta ci provo pur sapendo come andrà a finire.

Forse è questo vento tiepido o la lontananza, più o meno "profonda", delle persone che mi hanno scritto fino ad ora, che alimenta la flebile ragione di una parola triste che si rincorre. Oppure è proprio così che si fa con chi si cerca e non si sa trovare.

Così, solo così, perché così si è veramente cattivi con se stessi e con gli altri.

Solo così, perché io mi conosco, e so che non potrei rinunciare tanto facilmente alla mia impazienza, al mio desiderio da tutto e subito. Perché, poi, tutto questo che racconto è già troppo ricco di sensazioni per aggiungerne altre con la fantasia, ed io sono e sarò quello che vedi, libero di chiedere perdono a chi come te ogni volta cerca di ascoltarmi, sarò libero di ridurmi a questo ogni notte che avrò voglia di farlo.

Non corri rischi, non preoccuparti. Sai già come liberarti di me, non aspettarti altri inutili suggerimenti! Fallo e basta, allora!

E non sono scuse le mie, non è un alibi per andare via, perché, nei piccoli particolari, la ripugnanza per questa buia nottata che si avvicina sembra dar risalto, già da ora, alle mie paure.

Sono paure di non voler provare la malinconia, sono sorrisi che rivendico a me stesso, sono anche deboli rimorsi.

Ho capito a chi sto scrivendo, ho sentito, parola dopo parola, tutti gli anni che ci separano.

Sono distratto da tutto questo, ma so che purtroppo nulla cambierà, perché io scrivo e tu dormi, io scrivo e tu non ci sei.