lunedì 12 marzo 2007

...pezzi...un'altra puntata



...ha già percorso metà stanza quando si accorge di aver lasciato la luce accesa davanti al letto dove dorme lui.
Si infila la sigaretta tra le labbra e si allunga impacciatamente in avanti cercando di non fare troppo rumore. Non vuole che lui si svegli.
- Cazzo! Capita a tutti di essere così nervosi solo per un bacio? -
Ha fatto cadere la sua gonna nera per terra. Questa volta evita di accendere la luce. Tira su la gonna e la ripone su di una gruccia.
Chiude definitivamente la porta e va in cucina col suo passo pesante.
- Mi avrà sentito? -
Lui dorme a torso nudo sul letto.
I suoi capelli alla luce sono un miscuglio di noce e rosso oro, luminosi contro la pelle bianca. La barba gli cresce irregolare.
Ne avrebbe parlato con lui?
Accavalla la gamba e spegne la sigaretta in un posacenere poggiato sul tavolo della cucina.
Controlla il cellulare.
Vorrebbe la sua attenzione almeno ora che è sola.
E' come se sentisse ancora le sua mani addosso.
Il sapore di quel bacio distorto dalla sua unicità.
E' scalza.
Piega un braccio contro il petto.
Almeno domani tornerà al lavoro, pensa.
Son quasi cinque mesi che vive con lui.
Era stata una scelta improvvisa quella di andare a vivere insieme, improvvisa ed eccitante.
Lui non sta quasi mai in casa, a differenza di lei però è ancora convinto che lo stare sempre in mezzo alla gente sia la base del loro rapporto, del loro vivere insieme.
Che cos'è allora che non va?
Lei sente lo scatto della porta del bagno.
Guarda ancora nervosamente il telefono, poi guarda nel pacchetto di sigarette per controllare quante gliene sono rimaste.
Preferirebbe non incontrarlo ora, preferirebbe evitare di dovergli parlare.
- Che hai fatto ieri sera? Chi c'era alla festa? -
- Peccato che tu non sia venuto, spero solo che con il lavoro sia tutto a posto ora. -
Ecco quello che si direbbero, quello che lei ripete a se stessa mentre sente il rumore della doccia.
Non ha bisogno di ricordare. E' giovane, determinata, carina.
E' stata un'amica a presentarli.
Un anno fa.
Lui aveva i capelli più corti, aveva quel sorriso che sembra gonfiarsi sempre di più da un lato della bocca. Lo stesso sorriso che le è parso di vedere mentre dormiva.
Oltre la sua altezza, la prima cosa che notò fu il suo modo di camminare.
Le piacque subito.
Non che prima di lui negli ultimi tre anni non avesse avuto altre storie, anzi.
Le erano piaciuti uomini che probabilmente non avrebbe neanche notato se fosse rimasta ancora a casa sua.
Era più grande di lei, ma non poi di molto, solo di pochi anni. Era stata con uomini molto più grandi...



domenica 11 marzo 2007

POESIA














Hai mai fatto l’amore col fiato del buio,
quando gli occhi son come due stelle
appoggiate al gran vuoto,
sotto le prime mani della sera?
Colui che non vede la bellezza
è come il bambino
che conta le malinconie.
Chiude gli occhi e ci vede.


Quello che non sopporto






















Non sopporto gli ipocriti, i moralisti, quelli che hanno paura di prendersi le proprie responsabilità e le scaricano ad altri, quelli che non sanno dire "ho sbagliato, scusami, mi sento una merda", non sopporto i falsi amici, i falsi sognatori, i quelli che pensano solo fino ad un certo punto.
Io non sopporto tante cose, tante cose stupide e tante cose che invece mi fanno soffrire.
Non sopporto le cose gratuite e quindi odio la volgarità. Mi piacciono gli eccessi, sono teatrale per indole e cultura. Non sopporto gli obblighi, i dogmatismi, non sopporto il revisionismo culturale, non sopporto l'ipse dixit. Io non sopporto chi parla tanto per parlare, chi si approffitta delle persone, chi non sa leggere una poesia, io non sopporto chi parla da dietro, chi non ha il coraggio dei propri pensieri, chi non sa nemmeno lui cosa vuole. Io non sopporto chi ha smesso di amare, chi si accontenta, chi si nasconde dietro un dito, io non sopporto chi si vergogna dei propri pensieri, io non sopporto chi non sa fare le bolle di sapone!

Pezzi... (continua)



...Ha una casa tutta sua adesso. Non è sola.
Alle sue spalle 3 o 4 faccende richiamano la sua attenzione: i piatti rimasti ammucchiati nel lavello e alcune magliette da stirare.
Fa molto caldo.
L'umidità le schiaccia i capelli sulla fronte.
E' sempre stata una persona attenta al suo modo di vestire. Indossa dei jeans stretti oggi. Oggi è festa.
La linea della vita dei pantaloni scende più in basso della sua, lasciandole così scoperto qualche centimetro di pancia.
Appoggiata contro lo stipite della cucina, con il braccio sinistro lungo il fianco si porta meccanicamente la sigaretta alla bocca.
Si ripassa la scena nella testa.
Non è passato poi molto tempo.
Si scopre a mordicchiarsi il labbro inferiore. E' a metà fra lo sbuffo ed un sorriso.
Lei e lui che si sfiorano solamente per nascondere quello che forse è solo un primo imbarazzo.
Non c'è bisogno che qualcuno le dica che sta perdendo tempo. Era tutto lì, visibile a chiunque volesse, era tutto nell'immobilità del suo sguardo, era in quello che non aveva mai fatto.
Occhi marroni, il colore di un tronco giovane.
Solo l'idea di poter tornare indietro però la fa star male.
In momenti come questo si sentiva grata alla sua famiglia, per la libertà che le aveva sempre lasciato.
E' solo colpa sua se ora non riesce ad allentare la presa con se stessa.
Prima ancora di aver controllato il suo telefonino sente la voglia di scrivergli ancora.
Le parole le sembrano venir fuori con un'acredine inaspettata però...

Intrigo a Berlino



Intrigo a Berlino
(2006) un film di Steven Soderbergh con George Clooney, Cate Blanchett, Tobey Maguire, Beau Bridges.


Una spy-story un po' noir un po' fumetto, con un Clooney sempre troppo buono e sempre intrappolato nella sua eterna figura di simpatico omaccione.
Un film godibile per due terzi. Il finale, però, è troppo superficiale. Avrebbero dovuto eliminare alcuni passaggi troppo falsamente bogartiani per dare un po' più di peso alla trama che in alcuni momenti è decisamente insufficiente.

L'anno che verrà (tratto dalla mia rubrica su Barisera)









Tutto parte da questo principio: non è azzardato considerare la canzone come lo specchio fedele delle passioni, dei nostri desideri, delle paure e delle voglie della nostra società. Pensare ad una canzone allora, prima ancora che ascoltarla, è quello che molti di noi fanno o dovrebbero fare. Sentire verso dopo verso quest'insieme di parole e musica come la colonna sonora dei nostri avvenimenti è ciò che delle volte ci permette di provare gioia o malinconia. Non è un caso, allora, che negli ultimi decenni la canzone abbia assunto un ruolo pedagogico e comunicativo sempre più importante non solo fra i giovani.

La canzone comunica e si lascia comunicare. L'errore in cui, tuttavia, si può rischiare di incorrere è quello di considerare un cantante, al pari di uno storico o di un sociologo. Fare questo equivarrebbe disconoscere il ruolo stesso della chanson, quello che Pasolini definiva "il potere magico, abiettamente poetico" delle canzoni.

Perché la canzone, al contrario della poesia, si compone di tre parti: il testo, la musica e l'interpretazione. Tre componenti distinte fra loro, ma nello stesso tempo tre parti intrecciate e inseparabili, tre parti che distinguono la canzone dal verso poetico.

Guai allora a confondere la canzone con la poesia, ma guai anche a non riconoscere alla canzone la possibilità di poter fare cultura, proprio come una poesia.

Avvicinarsi ad essa dal punto di vista culturale, quindi, è come entrare in una terra di nessuno: ci si può trovare tutto e niente.

Ma cosa sarebbe, allora, la nostra società senza la canzone?

Noi sappiamo che i bambini fanno oh non perché l'ha scritto Pascoli nel suo Fanciullino, ma perché l'abbiamo ascoltato a Sanremo e così Samarcanda di Vecchioni e Via del Campo di De Andrè ci hanno insegnato a scoprire luoghi più o meno lontani che i libri di scuola delle volte hanno trascurato.

Perché allora non provare per gioco a raccontare il quotidiano attraverso le canzoni?

La canzone così diventerebbe il racconto di un evento, la storia di un sogno, di una passione da condividere. Diventerebbe quello che è: una testimonianza per tutti.

E se vedere, allora, la canzone come un reportage giornalistico può sembrare eccessivo, che la si veda almeno come "scheggia di vita", esempio in cui, ognuno di noi, si può in qualche modo immedesimare.

Come non partire, allora, da L'anno che verrà di Lucio Dalla per raccontare i desideri di questo inizio 2007?

Il momento è tecnicamente propizio: l'emozione dei buoni propositi che si fonde con la paura dell'ignoto, la speranza di far festa tutto l'anno, l'augurio che ci sia da mangiare tutto l'anno e che si possa fare l'amore, cioè vivere l'esperienza più bella e personale che ci sia, ognuno come gli va.

Che bello che sarebbe un mondo così! Che bella sarebbe la nostra città se nell'anno che verrà sparissero i troppo furbi e i cretini di ogni età. Che sogno sarebbe!

Chi è allora il protagonista di questa canzone, chi è che scrive a questo amico lontano, come potrebbe essere quest'uomo che aspetta l'inizio di un anno migliore?

Inizialmente appare come una persona timida, impaurita che esce poco la sera, uno dei tanti che stan senza parlare per intere settimane come se avesse paura, come se la paura fosse rassegnazione e non viceversa.

Quella di Lucio Dalla è un po' come una fotografia mossa, volutamente sfuocata, l'istantanea di un uomo intristito che ha poco da dire, che non sa di avere ancora la forza di parlare e quindi di vivere, di un uomo che riesce solo a parlare del tempo. E' la fotografia di ognuno di noi, però, è lo specchio di ogni uomo "colpito", di ogni "stanco abitante della nostra società". Ma la canzone non può finire così, non è e non può essere questa la condizione dell'uomo, soprattutto di chi si appresta ad iniziare qualcosa di nuovo, anche solo un nuovo anno. Ecco che d'un colpo, allora, la canzone cambia, avviane l'atteso cambio di registro, cambia il ritmo. E' la televisione ad annunciare la speranza, è la nostra Bibbia col telecomando" che ci dice di non avere paura, che ci dice che tutto sarà possibile, che è sbagliato lamentarsi, perché con il nuovo anno sarà tre volte Natale e ogni Cristo scenderà dalla croce, cioè ogni uomo smetterà di soffrire, e anche gli uccelli, cioè la libertà e l'innocenza di ognuno di noi, faranno ritorno, anche gli uccelli torneranno a cantare.

Che si riparta allora! Perchè l'uomo è così: un accumulatore, ma anche uno smarritore di emozioni. E allora è il caso di ammettere che a chiunque di noi è capitato almeno una volta nella vita di ritrovarsi con il telefono in mano, con la penna fra le dita a cercare un amico che non si sente da tanto, un vecchio amico a cui raccontare le nostre speranze, la nostra vita così com'è e così come si vorrebbe che sia. Non ha importanza se si hanno venticinque anni o se si è superato i "cinquanta". Inizia l'anno, anzi è già iniziato. E' la speranza del nuovo quel che entra in noi, la speranza dell'altro, il sogno di qualcosa di bello, di qualcosa che è bello forse proprio perché ancora non c'è.

E allora sogniamo, diciamo al nostro amico che se tutto passa in un istante, purtroppo anche la speranza, diventa importante che in quell'istante ci siamo noi, che ci sia anch'io. E non importa se l'amico esiste o, come per la canzone di Dalla, se è solo alla nostra coscienza che ci stiamo rivolgendo. Perché anche se c'è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra, anche se quello che abbiamo di fronte è un paese stanco ed impaurito, l'importante è crederci, l'importante è poterci ridere sopra, e continuare a sperare.