domenica 11 marzo 2007

L'anno che verrà (tratto dalla mia rubrica su Barisera)









Tutto parte da questo principio: non è azzardato considerare la canzone come lo specchio fedele delle passioni, dei nostri desideri, delle paure e delle voglie della nostra società. Pensare ad una canzone allora, prima ancora che ascoltarla, è quello che molti di noi fanno o dovrebbero fare. Sentire verso dopo verso quest'insieme di parole e musica come la colonna sonora dei nostri avvenimenti è ciò che delle volte ci permette di provare gioia o malinconia. Non è un caso, allora, che negli ultimi decenni la canzone abbia assunto un ruolo pedagogico e comunicativo sempre più importante non solo fra i giovani.

La canzone comunica e si lascia comunicare. L'errore in cui, tuttavia, si può rischiare di incorrere è quello di considerare un cantante, al pari di uno storico o di un sociologo. Fare questo equivarrebbe disconoscere il ruolo stesso della chanson, quello che Pasolini definiva "il potere magico, abiettamente poetico" delle canzoni.

Perché la canzone, al contrario della poesia, si compone di tre parti: il testo, la musica e l'interpretazione. Tre componenti distinte fra loro, ma nello stesso tempo tre parti intrecciate e inseparabili, tre parti che distinguono la canzone dal verso poetico.

Guai allora a confondere la canzone con la poesia, ma guai anche a non riconoscere alla canzone la possibilità di poter fare cultura, proprio come una poesia.

Avvicinarsi ad essa dal punto di vista culturale, quindi, è come entrare in una terra di nessuno: ci si può trovare tutto e niente.

Ma cosa sarebbe, allora, la nostra società senza la canzone?

Noi sappiamo che i bambini fanno oh non perché l'ha scritto Pascoli nel suo Fanciullino, ma perché l'abbiamo ascoltato a Sanremo e così Samarcanda di Vecchioni e Via del Campo di De Andrè ci hanno insegnato a scoprire luoghi più o meno lontani che i libri di scuola delle volte hanno trascurato.

Perché allora non provare per gioco a raccontare il quotidiano attraverso le canzoni?

La canzone così diventerebbe il racconto di un evento, la storia di un sogno, di una passione da condividere. Diventerebbe quello che è: una testimonianza per tutti.

E se vedere, allora, la canzone come un reportage giornalistico può sembrare eccessivo, che la si veda almeno come "scheggia di vita", esempio in cui, ognuno di noi, si può in qualche modo immedesimare.

Come non partire, allora, da L'anno che verrà di Lucio Dalla per raccontare i desideri di questo inizio 2007?

Il momento è tecnicamente propizio: l'emozione dei buoni propositi che si fonde con la paura dell'ignoto, la speranza di far festa tutto l'anno, l'augurio che ci sia da mangiare tutto l'anno e che si possa fare l'amore, cioè vivere l'esperienza più bella e personale che ci sia, ognuno come gli va.

Che bello che sarebbe un mondo così! Che bella sarebbe la nostra città se nell'anno che verrà sparissero i troppo furbi e i cretini di ogni età. Che sogno sarebbe!

Chi è allora il protagonista di questa canzone, chi è che scrive a questo amico lontano, come potrebbe essere quest'uomo che aspetta l'inizio di un anno migliore?

Inizialmente appare come una persona timida, impaurita che esce poco la sera, uno dei tanti che stan senza parlare per intere settimane come se avesse paura, come se la paura fosse rassegnazione e non viceversa.

Quella di Lucio Dalla è un po' come una fotografia mossa, volutamente sfuocata, l'istantanea di un uomo intristito che ha poco da dire, che non sa di avere ancora la forza di parlare e quindi di vivere, di un uomo che riesce solo a parlare del tempo. E' la fotografia di ognuno di noi, però, è lo specchio di ogni uomo "colpito", di ogni "stanco abitante della nostra società". Ma la canzone non può finire così, non è e non può essere questa la condizione dell'uomo, soprattutto di chi si appresta ad iniziare qualcosa di nuovo, anche solo un nuovo anno. Ecco che d'un colpo, allora, la canzone cambia, avviane l'atteso cambio di registro, cambia il ritmo. E' la televisione ad annunciare la speranza, è la nostra Bibbia col telecomando" che ci dice di non avere paura, che ci dice che tutto sarà possibile, che è sbagliato lamentarsi, perché con il nuovo anno sarà tre volte Natale e ogni Cristo scenderà dalla croce, cioè ogni uomo smetterà di soffrire, e anche gli uccelli, cioè la libertà e l'innocenza di ognuno di noi, faranno ritorno, anche gli uccelli torneranno a cantare.

Che si riparta allora! Perchè l'uomo è così: un accumulatore, ma anche uno smarritore di emozioni. E allora è il caso di ammettere che a chiunque di noi è capitato almeno una volta nella vita di ritrovarsi con il telefono in mano, con la penna fra le dita a cercare un amico che non si sente da tanto, un vecchio amico a cui raccontare le nostre speranze, la nostra vita così com'è e così come si vorrebbe che sia. Non ha importanza se si hanno venticinque anni o se si è superato i "cinquanta". Inizia l'anno, anzi è già iniziato. E' la speranza del nuovo quel che entra in noi, la speranza dell'altro, il sogno di qualcosa di bello, di qualcosa che è bello forse proprio perché ancora non c'è.

E allora sogniamo, diciamo al nostro amico che se tutto passa in un istante, purtroppo anche la speranza, diventa importante che in quell'istante ci siamo noi, che ci sia anch'io. E non importa se l'amico esiste o, come per la canzone di Dalla, se è solo alla nostra coscienza che ci stiamo rivolgendo. Perché anche se c'è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra, anche se quello che abbiamo di fronte è un paese stanco ed impaurito, l'importante è crederci, l'importante è poterci ridere sopra, e continuare a sperare.

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