venerdì 8 dicembre 2006

Alcune considerazioni sullo stato della ricerca in Italia












Nel 2000 il Consiglio europeo aveva fissato alcuni obiettivi strategici al fine di sostenere ed incrementare l'occupazione, le riforme economiche e sociali dei paesi membri, in un contesto di un'economia e di una società che si intendeva impostare sempre più sulla conoscenza e la ricerca innovativa.
L'obiettivo della Comunità europea era quello di aumentare la propria competitività a livello mondiale puntando ad investire almeno il 3% del pil di ogni paese in ricerca.
Questo nel 2000, sei anni fa.

L'Italia ultima in Europa negli investimenti per la ricerca

Spulciando oggi i dati delle ultime due finanziarie, quella appena varata dal governo Prodi e, ancor di più, quella dell'ultimo governo Berlusconi, è possibile vedere come l'Italia, a fronte di un impegno europeo ben più corposo, investa o abbia investito in ricerca più o meno la metà di quel 3% che ci si era prefissati in sede comunitaria.
Per amore di cronaca va anche detto che nel mondo solo il Giappone e la Corea arrivano ad investire il 3% del proprio pil in innovazione e ricerca, tutte le altre nazioni, compresi gli Stati Uniti, non arrivano a superare in investimenti il 2,70% del proprio prodotto interno lordo.
Quel che però fa sì che l'Italia si ritrovi ultima in Europa in questa speciale e poco lusinghiera classifica, oltre al minor numero di investimenti rispetto a tutti gli altri partners comunitari, è la cronica assenza di una programmazione politica lungimirante, una politica moderna che veda nella ricerca, negli investimenti nella ricerca, l'unico modo per ridare slancio e fiato al made in Italy, per reinserire l'Italia, cioè, in quel circolo virtuso "investimenti-ricerca-profitto" che negli anni 60 aveva gettato le basi per il famoso boom economico.

Il mondo della ricerca italiana

Chi ha avuto la fortuna/sfortuna di vivere il mondo delle Università italiane si è reso facilmente conto che la principale fonte di ricerca attiva è costituita dal lavoro dei Dottori di ricerca (figura che in Italia, però, non ha ancora trovato la propria collocazione nè per diritti nè per statuto) e dai ricercatori. Come non lanciare più di un campanello d'allarme, allora, se, dopo aver detto che l'Italia è, in Europa, la nazione che meno investe per l'Università e la ricerca, si sottolinea anche che il nostro paese è l'ultimo per numero di Dottori di ricerca e di giovani ricercatori?
Non a caso si è usato l'aggettivo "giovani" associato ai ricercatori, perché in Italia la carriera universitaria è molto più difficile e lunga (per motivi che non saranno in questa sede ricordati, ma che sono sotto gli occhi di tutti) rispetto a tante altre nazioni. Nelle nostre Università si rimane ricercatori anche ben oltre i 45 anni, età in cui in altre nazioni si diventa Professori di prima fascia. Negli Stati Uniti e nel resto dell'Europa questo non avviene mai, in Italia, invece, è praticamente prassi consolidata: ricercatore, quindi praticamente precario, fino a 40 anni, se tutto va bene.


La fuga dei cervelli

Si parla spesso ipocritamente di fuga dei cervelli, ma mi chiedo, ovviamente retoricamente, perché un trentenne dottore di ricerca italiano non debba decidere di andare in Inghilterra, in Francia o negli Stati Uniti per lavorare, o meglio, per farsi riconoscere il proprio lavoro, quando qui da noi dovrebbe attendere anni per vedersi bandito un qualsiasi concorso?
Il problema è culturale, acuito spesso da un approccio sbagliato al problema. Manca, infatti, quel circuito virtuoso di cui si è detto in precedenza, manca una programmazione che unisca concretamente e non solo demagogicamente l'Università con il mondo dell'impresa, con il cosiddetto "mondo produttivo". Manca una vera meritocrazia, e questo è purtroppo un dato ampiamente assodato, ma manca anche la tanto pubblicizzata mobilità scientifica, manca una strategia credibile che permetta al nostro sistema scientifico di uscire da quell'ampasse che ci sta portando sempre più a perdere credibilità internazionale.


La valorizzazione dei giovani talenti

Come uscire, allora, da questa situazione? Per prima cosa puntare sui giovani talenti, investando su di loro tempo ed energie, facendoli crescere e raccogliendo negli anni i frutti di questi investimenti.
Indirizzarsi, per quel che concerne l'assegnazione dei fondi, verso criteri di valutazione in cui il riconoscimento del talento conti realmente di più dell'appartenenza a gruppi politici o a conventicole di potere tout court, e, non certo per ultimo, investire, investire sapendo che solo attraverso l'innovazione e la ricerca una nazione può dirsi realmente moderna e competitiva.
Ringiovaniamo allora la nostra mentalità oltre che i posti di potere (ah come sarebbe bello se, come avviene negli Stati Uniti, in Spagna ed in Inghilterra questo avvenisse anche e soprattutto in politica), svecchiamo le università, diamo credibilità al sistema, mettiamo fine a quel clientelismo che paralizza più o meno da sempre il nostro mondo della ricerca e vedremo che si inizierà ad attirare investimenti dai privati, che si arriverà ad attirare partners stranieri e così si riuscirà, solo così si riuscirà a competere con le altre realtà universitarie mondiali.

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