mercoledì 27 giugno 2007

Sotto le stelle del messico a lavorar











Una buona legge sul lavoro noi italiani non l’avremo mai, o meglio, non l’avremo in questa legislatura, non certo grazie a questa maggioranza, che oggi, a ragion veduta, potremmo dire più di potere che politica. E’ la sconfortante conclusione a cui io, e non solo io, sono arrivato dopo aver ascoltato le parole del Presidente di Confindustria Luca Corsero di Montezemolo, sempre più ombra inquietante sulla guida politica di questo paese e di alcuni ministri del governo Prodi, in particolare del Ministro del Tesoro Tommaso Padoa Schioppa. Ma ciò che più mi colpisce e ferisce è che non è di questo che si parla in questi giorni, per assurdo non sembra questa la priorità di un governo di centro sinistra impegnato a fronteggiare un malcontento che si fa sempre più generalizzato e dilagante ed una sperequazione economico-sociale da nazione dell’america latina. Il problema del lavoro, purtroppo, sembra uscito dalla priorità dell’agenda di governo. E invece mi chiedo cosa importi di più alla gente la missione in Libano, la costituzione europea, le intercettazioni telefoniche di alcuni politici o una legge a tutela del proprio lavoro? La miopia di questo governo non sta solo nel non essere riuscito fino ad ora a rispondere a quelli che geneticamente dovrebbero essere i propri elettori, i lavoratori, ricordiamoci che la sinistra nasce come argine politico a difesa dei salariati, dei pensionati e dei giovani in cerca di occupazione, ma l’errore sta nel non aver capito e nel non aver fatto capire, che una buona legge sul lavoro, una legge che finalmente metta da parte le storture della legge 30, la cosiddetta Legge Biagi, porterebbe vantaggi, anche e soprattutto in termini fiscali e di qualità del lavoro, alle imprese e alle pubbliche amministrazioni. Negli ultimi 15 anni l’occupazione flessibile ha tolto dignità a quello che in barese si dice “la fatica”, il punto centrale su cui si fonda la nostra repubblica: il lavoro. La convinzione, un po’ ipocrita, di pensare che una maggiore flessibilità lavorativa supporta e accelera lo sviluppo sociale ed economico, nonché quello occupazionale, è la stessa da più di quindici anni, ma non credo ormai che sia in grado di convincere più nessuno, neanche quelli che magari continuano ad incensare i vantaggi della elasticità, protetti dal fatto che da questa flessibilità lavorativa non sono comunque mai toccati in nessun modo. Ma cos’è la flessibilità allora, cosa vuol dire in termini pratici? Vuol dire permettere alle imprese, a quelli che un tempo si chiamavano “padroni”, di gestire la facoltà di ingaggiare e retribuire la forza lavoro solo quando è necessario e finchè è necessario. In altre parole i lavoratori sono ingaggiati solo finchè la produzione lavorativa lo rende indispensabile, poi vengono lasciati a casa senza alcuna retribuzione e senza nessuna tutela pensionistica. Questo è il destino dei famosi co.co.co, dei lavoratori con contratti di collaborazione a tempo determinato, di quei giovani che formalmente sembrano autonomi, moderni liberi professionisti, ma che in realtà non sono altro che subordinati alle esigenze del mercato, pedine, come dimostrano i dati relativi alle applicazioni della legge 30 sulle collaborazioni continuative o sui lavori a progetto.

Sotto le stelle del Messico a trapanar, nelle miniere di petrolio a dimenticar, e nelle sere quando scende la sera andar. Sotto le stelle del Messico a trapanr. Sotto la luna dei tropici a innamorar, dentro le ascelle dei poveri a respirar, sul pavimento dei treni a vomitar e quando arriva lo sciopero a scioperar”.

In Italia il tanto sbandierato aumento del tasso di occupazione non è certo dovuto ai benefici di questa ed altre leggi sulla flessibilità introdotte dalle due precedenti maggioranze, ma solo alla regolamentazione (cosa buona e giusta, per carità) dei lavoratori in nero e clandestini, di chi, però già lavorava. Io credo, invece, che giovani e meno giovani abbiano il diritto di poter gestire il proprio futuro grazie a lavori che non abbiano una data di scadenza, come qualcosa che poi va a male.

Ma che società pensiamo che si possa costruire poggiandoci su una generazione dai redditi e dalle prospettive sociali incerte? Ma lavorando in queste condizioni che pensioni pensate che ci possano essere fra 25/30 anni? Vergognose!

Ecco che la flessibilità diventa precarietà, precarietà di un’intera vita.

Ma perché allora ci siamo ridotti così? Dove sono finite le conquiste del lavoro? Ormai si ragiona solo in termini di PIl e non più di dignità, di qualità della vita. Ma se questo agli economisti può anche andar bene, così come ad alcuni settori delle imprese, settori miopi e non certo lungimiranti, non può e non deve andar bene a chi dovrebbe fare della difesa dei lavoratori il proprio credo ideologico. So benissimo, tuttavia, che di fronte ad un declino del genere limitarsi a proporre l’abolizione della legge 30 sarebbe comunque solo un piccolo segnale, piccolo, ma importante, un segnale di rotta, però, per tanti elettori delusi e scontenti, ma anche per quanti non sono elettori di questa maggioranza, ma cittadini, uomini e donne che vorrebbe vedersi comunque tutelato il proprio futuro lavorativo e sociale.

“Il lavoro non è una merce”. Bisogna ripartire da qui, da questa convinzione. Solo così anche le leggi che devono essere fatte potranno partire dal presupposto che il lavoro non può essere separato dal lavoratore e che salvaguardando esso si tutela la sua l’identità sociale e familiare, la sicurezza economica, il futuro dell’individuo e della società. Il lavoro non è un cellulare, un computer, un auto che si cambia quando non la si usa più, se solo si capisse questo, se solo gli stessi lavoratori tornassero a sentire questo, già avremmo fatto un piccolo passo avanti verso una società migliore, più vantaggiosa anche per le imprese, perché con maggiori certezze ci sarebbero più spese e il denaro circolerebbe con più fluidità, insomma ci sarebbe meno stagnazione economica. Ecco perché speravo e in fondo in fondo spero ancora che questo governo di centrosinistra faccia qualcosa per il lavoro, altrimenti noi e nostri futuri figli finiremo così, come l’operaio messicano della canzone di De Gregori che disilluso torna da dove è partito “sotto le stelle del Messico a ritornar, e quando arriva le nuvole a rincasar, e quando piove nel fango a transumanar. Sotto le stelle del Messico a naufragar”.

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