Impotente, due lavori per guadagnare bene e non sentirsi da meno rispetto agli amici, una moglie comprensibile, un figlio bellissimo che vedevo troppo poco. E poi è natale e pensare di poter essere felice non vuol dire esserlo.
Che vergogna quando capisci che le tue parole assomigliano a quelle che avrebbe detto un attore in un dramma. L’attore le avrebbe usate per comunicare uno stato d’animo folle, le mie, invece, sembravano solo qualcosa di costruito, di artificioso.
Camminai lungo la strada. Avevo freddo, mi sentivo rattrappito. In macchina mi guardai allo specchietto retrovisore. Eppure quando era piccolo c’era anche chi diceva che la malattia non sempre assumesse una qualche forma fisica.
Sarebbe stato meglio farsi un taglio o bruciarsi la pancia. Almeno quelli sarebbero stati mali visibili, sarebbero stati inequivocabilmente presenti, lì sulla superficie del mio corpo, chiunque li avrebbe potuti vedere, tutti mi avrebbero compatito. Misi in moto e mi tornò questo pensiero.
Tornai a casa e fui letteralmente assalito dagli eventi.
L’infarto che questa volta aveva colpito mio padre non gli aveva lasciato più di un minuto di agonia. Meglio così, forse non ha neanche sofferto.
Ho sofferto io però. Ero seduto sul bordo del letto. Mi sentivo vivo e castigato, era una specie di choc chimico. Aveva ragione la puttana, solo con lei riuscivo ad essere me stesso. Godevo con lei, sognavo e non appena godevo la scacciavo come fosse una bestia, come se lei mi potesse ricordare il motivo per cui ero lì con lei. La puttana, mio padre morto mentre vedeva la televisione, mio figlio, erano tutti fatti molto concreti quella sera, ma ci sono altre cose concrete che non hanno nulla a che vedere con me. Era quello che non vedevo e continuai a non vederlo neanche quando mi ritrovai a casa di fronte a mio figlio che mi guardava. C’erano due vite in quel che vivevo: una vera ed una possibile.
- Quanto mi ami? – mi chiedeva continuamente mia moglie.
- Più di qualunque cosa. – rispondevo io.
Quelle strane creature, mia moglie, mio figlio, io.
- No, non fa per me l’amore. – disse alla puttana prima di entrare in macchina.
- Io ti invidio. –rispose la prostituta.
- Sì, buon per me. –
Poi cadde il silenzio . Era come se avessi avuto la sensazione di avere un’immagine chiara di una persona, un altro io che avrebbe saputo cambiare discorso, che avrebbe detto alla puttana di non essere interessato a quel che diceva.
Era un’abitudine e non potevo certo rovinarla così. Abitudine era una definizione perfetta. Abitudine suggeriva il lento ripetersi degli eventi e non contempo anche un vizio segreto.
Trovavo e trovo ancora ridicole altre parole: paura, vergogna e persino la parola amore.
Mio padre morto, la puttana che mi aveva detto di compatirmi, mio figlio che piangeva. Ho sempre pensato che comprendere le cose mi avrebbe caricato di nuovi obblighi, nuovi sensi di colpa che si sarebbero andati ad aggiungere all’eterno senso di inadeguatezza.
Perché di questo si trattava, di un dovere, di un senso di colpa.
Inspirai con gusto evidente. Nessuno sentiva il mio senso di segretezza.
Guardai mia madre che piangeva, anche mio figlio piangeva solo che lui non sapeva ancora perché.
- Tuo padre è morto. –
- Oddio mamma. – eppure per un istante non riuscii a comprendere fino in fondo come si stesse morendo.
giovedì 13 dicembre 2007
parte due...racconto di natale
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7 commenti:
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non poteva essere diverso
siete solo folli.
ma cosa succede quì?!sei invaso dai demoni anonimi??
Demoni anonimi...sorrido...nelle ultime settimane mi han scritto tanti post in cui mi han definito pazzo, folle, matto...devo iniziare a crederci?
Penso di descrivere quello che vedo non sempre quello che sento, specie quando scrivo racconti di fantasia.
certo credici.. pazzo, folle, matto...altrimenti perchè stare quì a leggerti?!
Io non ti leggo perchè ti considero pazzo, ti leggo perchè spesso dici frasi che vorrei dire anche io.
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