lunedì 22 giugno 2009
...bolle di sapone
Siamo diventati dipendenti dalle bolle di sapone.
Le bolle sono colorate, ci riportano al gusto immaginifico dell’infanzia, le bolle di sapone sono semplicemente belle, attirano la nostra attenzione.
Va bene quanto detto fino ad ora, rende l’idea di questa nostra passione ? O forse ci sfugge ancora qualcosa?. Senza accorgercene abbiamo pian piano iniziato ad abituarci a tutto questo, a vedere queste bolle da lontano, e non ci siamo accorti che è come guardare una distesa di azzurri che digradano.
Ma qual è la caratteristica principale delle bolle di sapone? Quella di essere leggere, di frantumarsi in mille piccoli schizzi d’acqua al minimo contatto con un corpo esterno, con qualcosa che abbia reale consistenza.
Le bolle di sapone e chi le guarda felice son diventate la metafora della nostra società, della cultura dei nostri giorni. Una società narcisista ed egocentrica, nella quale cresce la paura di dover convivere con gli altri, dove per questi ultimi possiamo intendere i giovani come gli immigrati o quelli che ci “obbligano” a rispettare le regole e a pagare le tasse.
Una delle prime espressioni di questa paura è stata la controriforma del sistema culturale e dello svago. Siamo diventati i protagonisti consapevoli di fiction, reality e faccia a faccia. Da spettatori siamo diventati comparse, sopraffatti da pregiudizi verso tutto quello che non è immagine, verso tutto quello che non solo non è una bella e profumata bolla di sapone, ma anche ciò che rischia, con il contatto, di infrangere il mito della bella bolla colorata. Il mondo culturale invece è il “non luogo” dove da sempre il futuro arriva in anticipo, questo è e dovrebbe essere. La cultura è un muro, un muro da scalare, da costruire, un muro che dà protezione anche se molti hanno iniziato a vedere questo muro come ostruzione.
Ed è da qui che la crisi di cui tanto si parla è diventata una crisi culturale.
Noi tutti purtroppo siamo sempre meno in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze del presente e agli interessi dei nostri destinatari, qualunque essi siano. Basta ascoltare quel che se ne dice in giro, come se il parlarne, poi, avesse soprattutto la funzione di proteggere da quella carenza di senso familiare che ci portiamo dietro per ogni cosa. Insomma, la crisi è ‘nell’aria che respiriamo’, un’aria piena di bolle di sapone però. La crisi quindi deve essere per forza di tipo culturale.
Eppure, in controluce, tutti i termini appaiono indeterminati. Facciamoci caso, tra
le tante parole , quante sono soltanto retorica (invettiva, costernata
doglianza, caparbietà delle buone intenzioni, profetico entusiasmo, per non citare che alcune
variazioni sul tema e per non dire i cliché, i luoghi comuni, i pregiudizi), quante volte abbiamo parlato senza giungere mai alla conclusione di qualcosa? Cosa intendiamo, infatti, quando parliamo di cultura? Un segno di progresso tout court, la fine del “ignoranza”o una sfida epocale a qualcosa, l’opportunità di nuove forme di trasmissione comunicativa? La cultura dovrebbe far cadere i vuoti di senso e cancellare i pregiudizi, consentendo di esplorare e investigare il nocciolo della società finalmente messa a nudo. La cultura dovrebbe essere quell’aspirapolvere in grado di far scomparire i pregiudizi.
La cultura ci dovrebbe costringere a tornare alle domande: non importa se le risposte siano vecchie o nuove, purché scaturite da un esame diretto. E le domande sono sempre opposizione costruttiva a qualcosa.
Da professore dico che l’epoca della scolarità di massa con tutto quello che comporta sembra volgere al termine e non so se è proprio un dramma. Gli effetti di emancipazione e di mobilità sociale - che si davano in qualche modo per scontati con l’incremento della scolarità - non paiono più così essenziali e comunque non più conseguibili come al tempo dei nostri genitori.
Perciò si propone una rottura, un mutamento di missione e al tempo stesso di paradigmi
istituzionali, di modi di apprendimento. Oppure si prende atto che “la scuola non è per tutti”, perché tutti hanno il diritto di andarci, ma non tutti hanno le facoltà per riuscirci.
In parallelo, il nocciolo della materia culturale di questa società sembra farsi terribilmente opaco e
sfuggente quasi fossimo rimasti impigliati fra “le ragnatele di significato che noi stessi abbiamo tessuto intorno alla società". Di qui, la difficoltà di creare un minimo di opposizione, di qui la caduta dei muri, delle idee.
E poi: se è quasi ovvio che la crisi culturale riguardi un po’ tutti, non altrettanto è
che sia cruciale per tutti, non tutti voglino i muri, non tutti aspettano lo scoppio delle bolle di sapone. Se stentiamo ad accorgercene è perché riteniamo di non dover né chiedere né
ascoltare, ma solamente guardare. Così, i nostri stessi racconti diventano sterili: chiusi nei nostri ricordi finiamo per lasciare ad altri la voglia. Così, l’amnesia è grande almeno quanto la nostra impotenza a riattraversare noi stessi nello sguardo dell’altro. Ed è in questa
mancanza o ottusità del confronto che ci fermiamo a guardare le bolle di sapone. E’ qui che una
generazione non rinnovata o sostenuta da uno scambio può finire per perdere o non riuscire a
trovare se stessa, che poi è più o meno la stessa cosa.
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